Negli ultimi trent’anni le aumentate prestazioni produttive delle vacche moderne hanno richiesto un radicale cambiamento nella formulazione delle razioni. Uno dei modi più semplici ed economici per soddisfare tali esigenze è stato quello di aumentare i carboidrati non strutturali (NSC) a spese della quota di fibra (NDF). In effetti, la fermentazione della fibra produce molta meno energia rispetto a quella degli NSC, dal momento che la fermentescibilità degli NDF è inferiore a quella degli NSC. All’interno del processo si producono notevoli quantità di metano, con grosse perdite energetiche. Questa è la ragione per cui le razioni contenenti una percentuale più alta di foraggi danno origine, per unità di prodotto (latte o carne), ad una quantità di gas climalteranti superiore a quelle che hanno un indice di efficienza ruminale superiore dal momento che contengono più carboidrati fermentescibili.

Per considerare meglio la fisiologia ruminale, bisogna considerare che il bovino, nella scala dei predatori, occupa in natura un posto molto basso, e quindi necessita di consumare un pasto voluminoso per poi processarlo al sicuro dai predatori. Ciò ha condotto allo sviluppo dei prestomaci, nati come stoccaggio dei foraggi.

Dal punto di vista filogenetico, il rumine è un sistema che raggiunge l’apice della complessità. Infatti, il ruminante nasce con una capacità enzimatica nei confronti dei carboidrati semplici (lattosio) molto elevata, che tende a diminuire con lo sviluppo dei prestomaci. Il microbioma ruminale è specializzato per i motivi filogenetici sopraddetti a fermentare carboidrati complessi durante i periodi di riposo successivi ai pasti. Nell’alimentazione moderna, nel rumine vengono inseriti quantitativi importanti di amidi sottoforma più o meno fermentescibile e la fermentazione ruminale interessa dal 70 al 90% degli amidi totali ingeriti. D’altro canto, l’efficienza della digestione enzimatica degli amidi nel piccolo intestino è dal 30 al 42% superiore rispetto alla fermentazione ruminale: da un lato si formano degli acidi grassi volatili (AGV), dall’altro la digestione produce mono o disaccaridi con minor dispendio energetico. Spostare almeno in parte la digestione dell’amido dai prestomaci al piccolo intestino potrebbe quindi essere interessante dal punto di vista dell’efficienza.

L’entità di fermentazione ruminale degli amidi dipende essenzialmente dal tipo di cereale di provenienza, dal modo in cui viene lavorato, dalla granulometria, dall’umidità e dallo stadio di maturazione, dal tempo di insilamento, dal rapporto tra amilosio e amilopectina, dal complesso che si forma tra amilosio e frazione lipidica, dal contenuto di prolamina dell’endosperma e dalle caratteristiche dell’amido (vitreo, farinoso). Non è questo l’argomento di oggi, ma come si sa, tutte queste variabili influenzano la digestione ruminale a 7 ore dell’amido. Questo indicatore non è arbitrario ma rappresenta il tempo medio di permanenza ruminale dell’amido, dal momento che il tasso di passaggio è di circa il 14% all’ora e si suppone che mediamente dopo 7 ore dall’ingestione quest’ultimo lasci il rumine.

Dopo la fermentazione ruminale l’amido residuo viene digerito enzimaticamente nell’intestino tenue, la cui porzione più efficiente in questo processo è il digiuno.

 La digestione si compone di tre step:

  • L’idrolisi effettuata dall’α amilasi per ridurlo a oligosaccaridi.
  • Il rilascio del glucosio dagli oligosaccaridi dovuto alle α glicoidrolasi (isomaltasi, maltasi, glucoamilasi) che sono presenti nell’epitelio intestinale.
  • Il trasporto del glucosio dal lume intestinale all’epitelio.

Diversi autori hanno ipotizzati che la minor capacità dei ruminanti nel digerire gli amidi nel piccolo intestino fosse correlata ad un tempo inadeguato per una digestione sufficiente, ad una minor attività enzimatica delle α glicoidrolasi nell’orletto a spazzola, e da una diminuita capacità di assorbimento dal lume all’epitelio. Gli alimenti attraversano il piccolo intestino in meno di tre ore e la capacità di assorbimento luminale è correlata col quantitativo di amidi presenti. In tutte le prove effettuate negli ultimi anni con infusione abomasale di amido, la sua digestione è stata aumentata con proporzione quadratica dall’infusione di caseina o di acido glutammico.

Con l’infusione di caseina immediatamente aumenta il rilascio di glucosio nel fegato, con un conseguente aumento della glicemia. Questo processo è correlato ad un aumento del 50% nella ritenzione dell’azoto nei tessuti e fa pensare ad un utilizzo gluconeogenetico degli aminoacidi.

Un analogo effetto positivo sulla digestione degli amidi dovuta all’infusione dell’acido glutammico può essere spiegato da un’aumentata secrezione di colecistochinina (CCK), un peptide gastrointestinale che stimola la secrezione dell’amilasi pancreatica in funzione del quantitativo di proteina che raggiunge il duodeno.

Generalmente, l’aumento della glicemia dovuto alla miglior digestione degli amidi nel piccolo intestino, conduce alla produzione di acidi grassi de novo deposti nel grasso intramuscolare.

Questo fenomeno potrebbe spiegare i miglioramenti produttivi ottenuti con proteine di alto valore biologico e con una degradabilità a livello ruminale più bassa.

In ultima analisi, la degradabiltà post ruminale degli amidi è molto variabile, ed un eccesso di amido indigerito può dare origine ad acidosi del grosso intestino dove la popolazione batterica è molto simile a quella ruminale.

D’altro canto, una buona efficienza digestiva del tenue può contribuire in modo essenziale al raggiungimento dei valori considerati ottimali di TTSD (total tract starch digestiblity), che sono quelli superiori al 97%.