Tra i costi aziendali, il costo del lavoro rappresenta normalmente la seconda voce per importanza.

Mentre per quanto riguarda il costo del lavoro determinato  dal personale dipendente, salvo la congruità rispetto al volume d’affari dell’azienda non ci sono dubbi circa l’imputazione, merita di essere approfondito l’argomento del lavoro del titolare e, più in generale, del contributo di lavoro della famiglia del titolare. La valutazione e l’imputazione a costo di tali prestazioni,  mentre è chiara  ed evidente a chi studia, è decisamente più delicata nel mondo reale. Come possono avere retto molte aziende, strette tra alti costi e bassi prezzi di vendita del latte, se non riducendo il valore del lavoro familiare? Nel mondo reale non è infrequente discutere circa il fatto che l’azienda deve essere in grado di retribuire il lavoro del titolare e dei suoi familiari in modo adeguato. Cosa può essere considerato adeguato?

E’ necessario definire anzitutto il ruolo del titolare. Egli  svolge sostanzialmente due ruoli in azienda:

  1. Una funzione operativa, di coordinamento e direttiva (mansione che è assimilabile  a quella di un dipendente e dunque delegabile e retribuibile come tale);  la retribuzione  netta mensile deve dunque essere commisurata alla retribuzione che percepirebbe un dipendente cui dovessero essere delegate le stesse mansioni. Per dare delle cifre constato che diversi titolari che operano in azienda retribuiscono se stessi 1500-2000 €/mese . Già da ciò si capisce che, considerate le ore lavorate e la qualità del lavoro svolto, la leva di sottopagare il titolare è stata utilizzata per fare in modo che i conti aziendali reggessero. E’ chiaro che tale accorgimento deve essere transitorio.  E’ fin troppo facile, e pure falso, far tornare i conti campando con la pensione del padre o con lo stipendio del consorte e non pagando il lavoro di moglie e figli.
  2. Una funzione imprenditoriale  (parliamo di una o più persone che  rischiano del loro, al fine di trarre un reddito dato dal capitale investito e dal rischio d’impresa). Salvo casi particolari, lo scopo di un’impresa, una volta saldati tutti i costi aziendali (compreso il lavoro del titolare medesimo e dei suoi familiari) è cercare in tutti i modi di far “avanzare” qualcosa che remuneri la funzione di imprenditore. E’ plausibile che un imprenditore possa non guadagnare per un determinato periodo di tempo. Fa parte del rischio d’impresa. Accade in ogni settore economico, anche ad aziende molto note. Non può tuttavia essere considerato un elemento normale, quasi strutturale. Il fatto che l’imprenditore non remuneri se stesso, deve essere una sferzata per lo stesso a rivedere tutti gli elementi della propria attività e ad assumere ogni decisione al fine  di tornare ad una decente condizione di reddito dell’impresa. Il percorso potrà non essere facile né breve; mi rifiuto tuttavia di pensare che un settore economico possa progredire e prosperare con un reddito d’impresa nullo o negativo. Accettare una condizione del genere equivale ad accettare una condanna a morte. Gli investimenti (stalle, impianto di mungitura, trattori, macchinari, ecc.) possono essere rimandati, non certo cancellati. Prima o poi si deve intervenire. Se non abbiamo messo via risorse o, peggio, se le abbiamo utilizzate per chiudere i buchi di ogni anno …

Ancora una volta sento il dovere di richiamare la necessità di disporre di un conto economico aziendale. E’ l’unico strumento in grado di metterci davanti alla realtà. Dolce o cruda che sia.