Si sono da poco concluse le elezioni e stiamo aspettando che si formi il nuovo governo, il quale dovrà condurre l’Italia attraverso un mare tempestoso verso un futuro che tutti ci auguriamo sia migliore del presente.

Al di là della coalizione che ha preso più voti, chi ha realmente “vinto” queste elezioni sono quelli che non hanno votato, ossia il 36.1% dei 50.869.305 di cittadini aventi diritto. Questi poco più di 18 milioni di italiani hanno di fatto espresso una sfiducia verso la democrazia italiana e la classe politica che la gestisce. La percezione che si ha, giusta o sbagliata che sia, è che i politici più che avere a cuore le sorti del nostro Paese, hanno come priorità i loro interessi personali.

L’ego, il potere, i privilegi e il denaro sono ancestrali motivazioni che condizionano l’uomo ma, se ciò non è in opposizione con il buon governo dello Stato, nulla da eccepire, perché questa è la natura umana. In passato ci si riconosceva nelle ideologie dei partiti e ciò spingeva a militarci o a votarli. Negli ultimi anni il termine “ideologico” ha assunto un’accezione negativa e, più che il partito, si vota la persona. Destra e sinistra identifica ormai solo la posizione in parlamento.

Negli ultimi due anni e mezzo, ossia dalla pandemia ad oggi, sono esplose le contraddizioni del nostro paese e ciò ha lasciato un livello elevato di frustrazione e rabbia che, se non troverà risposte, potrà sfociare in situazioni ben più gravi dell’astensione al voto di oltre un terzo degli italiani.

Senza divagare ulteriormente, e rimanendo nel nostro mondo di produttori di cibo, in questi ultimi due anni abbiamo visto con sconcertante chiarezza la potenza incontrollata (ma non incontrollabile) della finanza mondiale e delle multinazionali. Abbiamo capito che esse hanno la capacità di cavalcare in tempo reale i vari episodi di crisi per accrescere i loro profitti, nella certezza che la governance politica nazionale e internazionale farà nulla se non aiutarle, facendo concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle misere scaramucce dei politici o sui capri espiatori di turno. La finanza e certe multinazionali contano sull’impossibilità, o solo incapacità, della politica internazionale di porre delle regole, e ciò sta creando una profonda incertezza nel futuro, quasi a dare ragione ai numerosissimi film di futuri distopici che la cinematografia ci propina.

Chi ama ricordare i fatti con puntigliosità, e questo Ruminantia lo fa, si ricorderà bene come, a pochi giorni dall’inizio del lockdown, siano cominciate le speculazioni sui prezzi sia delle materie prime che dei prodotti finiti. Non so se c’è qualcuno che crede che il prezzo di un bene, sia esso una commodity od altro, venga ancora determinato dal rapporto tra domanda  e offerta. Così era fino a quando acquisizioni, fusioni e accordi di cartello hanno annullato il regime di libera concorrenza mondiale.

Noi che ci occupiamo di agricoltura abbiamo solo potuto constatare inermi gli aumenti di ogni prodotto necessario alla produzione primaria. Ad esempio, sono aumentati, e lo stanno ancora facendo, i prezzi dei concimi, dei combustibili e degli alimenti zootecnici, senza che tutto ciò abbia un nesso causale unico. Al blocco dell’attività di molti settori produttivi dovuto al lockdown, è seguita due anni dopo una guerra insensata che ha di nuovo alterato i già difficili equilibri mondiali e dato ulteriori pretesti alla finanza e alle multinazionali delle commodity per proseguire il loro imponente arricchimento. La classe politica, non solo italiana, ha giustamente cercato di erogare sussidi a chi ne aveva la necessità.

Contemporaneamente all’aumento dell’indebitamento degli Stati, non si potevano prendere provvedimenti di regolazione degli enormi guadagni di chi, dalla crisi, ha ottenuto grandissimi vantaggi? Dopo un lungo periodo di stasi che ha drenato la liquidità delle imprese che fanno economia e non finanza, ossia che producono beni materiali, sono aumentati i prezzi al pubblico di tutte le merci riversando così sul consumatore l’incremento in origine dei prezzi delle materie prime. L’inflazione è ormai vicina al 10% e, se non ci sarà un aumento delle retribuzioni, si verificherà un’ovvia riduzione del potere d’acquisto della gente e quindi dei consumi, e da ciò conseguirà inevitabilmente un rallentamento della domanda alla produzione primaria.

L’infoltirsi della schiera dei negazionisti-revisionisti-complottisti, e l’incessante delegittimazione del ruolo dell’esperto, stanno incentivando, soprattutto nei giovani, la disaffezione per lo studio e per i sacrifici per “farsi una posizione”. Tutto questo non sarebbe successo se avessimo avuto una classe politica che, oltre all’ossessione per i sondaggi, avesse avuto il senso dello Stato e del dovere. Qualcosa si può ancora salvare perché la storia ci ha insegnato che molte rivoluzioni iniziano dal basso e ciò può generare leader nuovi e più capaci.