Il titolo di questo editoriale è ovviamente provocatorio, ma molti sarebbero i motivi per celebrare un “pride”, l’orgoglio di essere italiani, che non bisognerebbe mai dimenticare per non perdere la bussola, credere nel futuro e non fare proliferare i nichilisti di professione.

L’Italia è un piccolo paese di circa 300.000 km2 che ospita circa 60.5 milioni di persone e che possiede tra il 60 e il 75% del patrimonio artistico dell’umanità. Il nostro paese non è (e non potrebbe essere) un produttore di materie prime (commodities), sia perché non ne abbiamo a sufficienza per i nostri bisogni interni che perché non abbiamo la cultura e l’esperienza per produrle. Il tessuto produttivo del nostro paese è fatto di piccole e medie imprese (PMI), ossia aziende che hanno meno di 250 dipendenti e che fatturano meno di 50 milioni di euro, in grado di trasformare le materie prime nelle eccellenze del manifatturiero. Delle 4.338.766 imprese italiane, ben il 99.9% sono PMI e di queste il 95% ha meno di 10 dipendenti. Questo esercito di “partite IVA” genera le risorse economiche necessarie ai fabbisogni di governance e benessere della nostra nazione. Anche se la percentuale di esportazione (in valore) rispetto alle altre nazioni del mondo è di solo il 2.9% (2017), che comunque ci attesta al 9° posto nella classifica mondiale, il valore di questa quota è di 448.000 milioni di euro ed è in crescita dal 2000 di ben 79.091 milioni di euro.

La lunga, anzi lunghissima storia del nostro popolo e la secolare e singolare esperienza dell’Impero Romano hanno indubbiamente plasmato il nostro DNA, rendendoci fatalmente attratti dalla bellezza e da un peculiare stile di vita classificabile come Italian Style, che altro non è che un Life Style brand, una marca il cui possesso vuole dimostrare uno stile di vita.  Questo è il contesto che ci ha permesso di trasformare i colori nella Gioconda di Leonardo da Vinci, il marmo nella Pietà di Michelangelo, la terra in Venezia, i metalli in Ferrari e Ducati, il cotone e la lana in capi di Prada ed Armani, l’uva nel Brunello di Montalcino, ortaggi e carne nei pasti sublimi di Massimo Bottura e il latte nei tanti formaggi a denominazione d’origine. Sarebbe impossibile elencare l’enorme numero di imprese italiane che stanno trionfando nel nostro paese, e soprattutto all’estero, nel manifatturiero e nelle tecnologie avanzate.

E’ giusto approfittare di qualche riga per spendere una parola sul nostro sistema universitario, riconosciuto nel mondo per la capacità di produrre ottimi laureati, i quali non hanno opportunità nel nostro Paese, ma all’estero sì. Accanto a questo saper fare, cresce (apparentemente senza sosta) l’italico masochismo del mantra quotidiano che “in Italia va tutto male”, e che, in confronto ad ogni altro paese, “siamo capaci solo di creare caos”. Ci si lamenta della politica ma, in uno Stato di diritto come il nostro, è con le elezioni che si sceglie chi ci deve rappresentare. Ci si lamenta dei comportamenti incivili quando si è i primi ad adottarli. Ci si lamenta di non dare un futuro al nostro paese quando si tratta sciattamente l’ambiente e non si investe nei giovani e nella ricerca.

Parlare di queste cose potrebbe sembrare fuori tema in una rivista che si chiama Ruminantia. In realtà, in questo contesto, quale migliore occasione per parlare della appena conclusa edizione 2018 della Fiera Internazionale della Bovina da Latte di Cremona, fantastico specchio del nostro paese? Accanto al proliferare dei caseifici agricoli e aziendali, e alla loro capacità di appagare il piacere e il gusto dei consumatori, alla qualità dell’industria lattiero-casearia, al consolidarsi dell’export dei prodotti a denominazione che macinano record su record e al gradimento all’estero del nostro saper fare stalle, attrezzature e additivi, l’edizione 2018 della fiera di Cremona si è svolta decisamente sotto tono, nonostante la volontà della nuova gestione di Cremonafiere sia rivolta ad un deciso rilancio di questo irrinunciabile evento.

Quest’anno, grazie alla sensibilità di chi ora la sta gestendo, ed in particolare del Direttore Massimo De Bellis, Ruminantia è stata presente in Fiera con tutta la sua redazione, utilizzando lo spazio concessole per dialogare con i suoi lettori e raccogliere numerose interviste. Molte sono le ragioni passate che hanno portato ad una edizione 2018 con sempre meno espositori, meno animali in gara e forse meno visitatori; le colpe sono però equamente distribuibili tra organizzatori e partecipanti. Forse è il momento di chiedersi se una fiera zootecnica abbia ancora un senso e, se sì, come debba essere organizzata.

Secondo il punto di vista di Ruminantia un paese come il nostro, che ha raggiunto un livello produttivo sulle bovine di tutto rispetto, anche se sta purtroppo perdendo le opportunità offerte dalla genomica, che sostanzialmente sta eguagliando nel mondo la notorietà dei formaggi a quella dei vini, che ha un modello produttivo reale di stalle sostenibili dove le bovine vivono in ottime condizioni, non può non avere una fiera specializzata delle bovine da latte, o meglio della filiera del latte, con una dimensione internazionale. Avere una Fiera Internazionale visitata da operatori della filiera sia italiana che internazionale dà stimoli e messaggi positivi tanto agli allevatori quanto al terziario italiano, ed agevola l’esportazione delle molte imprese del nostro paese che si stanno cimentando all’estero. Per un’impresa italiana che vuole esportare non ha alcun senso “commerciale” disertare le fiere Italiane per esporre solo a fiere straniere.

L’aforisma “se non sei capace a casa tua, non lo puoi essere a casa di altri” ha una dimensione internazionale. Le difficoltà della Fiera di Cremona, vittima di un’incomprensibile guerra tra le sigle sindacali agricole, stanno creando alla filiera del latte italiano danni economici incalcolabili. Chi ha deciso di far chiudere quella che chiamiamo romanticamente la Fiera di Cremona ci deve indicare, ed in fretta, dove farla; perché di una fiera specializzata sulla filiera del latte bovino nel nostro paese ne abbiamo bisogno, come abbiamo l’assoluta necessità di Fieragricola (Fiera Internazionale dell’agricoltura di Verona), dell’EIMA (Esposizione Internazionale di Macchine per l’Agricoltura e il giardinaggio) e di CIBUS (fiera per lo sviluppo internazionale del made in Italy alimentare). Fiere non concorrenti ma complementari, e di supporto all’internazionalizzazione delle nostre produzioni.

A Cremona, oltre al dispiacere nel non veder esporre molte aziende italiane, ci ha colpito favorevolmente la presenza di quelle multinazionali che hanno scelto proprio questa fiera per il lancio di importanti novità in termini di prodotti e di servizi e che vedono nel nostro paese non solo una mercato da frequentare, ma anche un accreditamento per essere ancora più efficaci nei paesi dove l’Italian style è particolarmente gradito. Questo editoriale vuole anche essere uno stimolo per Cremona Fiere, i sindacati agricoli, le imprese italiane e straniere a confrontarsi costruttivamente sull’ineludibile importanza per il nostro paese di una Fiera internazionale della Bovina da Latte, lasciando le questioni di principio e di potere a chi non ha bisogno di generare ricchezza.

La nostra filiera, con la collaborazione di tutti come laboriose formiche, sta trascinando il latte italiano fuori dalla palude della commodity, ma ancora non completamente. Abbiamo bisogno dello stato e della politica per supportare gli sforzi dei tanti imprenditori che stanno portando all’estero il Made in Italy e per arginare il calo dei consumi domestici.  Utilizziamo La Fiera di Cremona per celebrare il primo Italian Dairy Pride con l’obiettivo di dare speranze concrete ai nostri allevatori, stimolare le imprese italiane nell’investire in ricerca e sviluppo e nell’esportazione e creare le condizioni affinchè gli stranieri possano venire in Italia a visitare fabbriche, caseifici ed allevamenti oltre al nostro patrimonio artistico, paesaggistico e gastronomico, in modo da essere testimoni all’estero dell’unicità sia del Made in Italy che dell’Italian Style.