Gestire correttamente la delicata fase che precede lo svezzamento delle vitelle è di fondamentale importanza sia per ridurre e mantenere al disotto dell’8% la mortalità in questo periodo che per avere animali in produzione in grado di esprimere tutto il loro potenziale genetico produttivo.

Anche se il livello di conoscenze acquisite fino ad ora è molto elevato, per non dire completo, c’è un’ampia variabilità delle metodologie applicate negli allevamenti.

Obiettivo di questa “revisione narrativa” è alternare i richiami a concetti condivisi (paradigmi) con quanto è stato riportato nella recente edizione del Dairy 2014 (Dairy Cattle Management Practices in United States), a cura dell’USDA-National Animal Health Monitoring System, pubblicato on-line a Febbraio 2016. Questo report ha un valore non solo perché è stato prodotto negli USA ma soprattutto perché “fotografa” in maniera obiettiva ciò che succede in una nazione da molti considerata di riferimento per la produzione di latte bovino. I dati riportati provengono da 17 Stati americani e corrispondono al 76.7% degli allevamenti e all’80.3% delle bovine allevate appunto negli USA.

Indagini di questa portata non sono effettuate ad oggi in nessuna altra nazione del mondo dove si allevano bovine da latte. I dati che vengono utilizzati per ottimizzare le tecniche nutrizionali, gestionali e sanitarie delle vitelle da rimonta derivano spesso da studi effettuati su numeri limitati di animali nelle nazioni dove risiedono i gruppi di ricerca. Quelli che hanno un valore oggettivo e replicabile sono quelli di base poi utilizzati dai tecnici per sviluppare, per ogni allevamento, i migliori protocolli operativi.

Lo svezzamento è quella fase del ciclo produttivo della bovina in cui si passa da un’alimentazione anche lattea ad una esclusivamente solida. I dati riportati nel Dairy 2014 ci dicono che negli USA le vitelle si svezzano mediamente a 9 settimane (63 gg), con la differenza che negli allevamenti più piccoli, ossia fino a 99 capi, tale periodo si allunga di 1.3 – 2.6 settimane. Questo conferma che quello che oggi è il paradigma del giusto tempo di svezzamento delle vitelle è mediamente rispettato, anche se il 18% degli allevamenti lo effettua a 7 settimane e il 7.4% ancor più precocemente. In ogni caso, ben il 18.9% lo effettua oltre le 13 settimane.

Decidere questo tempo non è facile perché la vitella è “svezzabile” solo se il rumine è pienamente funzionante, ossia in grado di supportare completamente, insieme all’intestino, i fabbisogni nutritivi della manzetta. Altra ragione per avere un rumine perfettamente attivo, e un intestino in grado di “processare” correttamente gli amidi by-pass, è legata al fatto che se arrivasse al grosso intestino un’eccessiva quantità di alimenti indigeriti ciò potrebbe causare gravi enteriti ed un rallentamento dell’accrescimento medio giornaliero, tanto è vero che il controllo a posteriori da effettuare in allevamento è proprio quello della qualità delle feci nei primi 15 giorni dopo lo svezzamento e l’aspetto generale delle manzette. Feci liquide e verdastre con molto materiale indigerito testimoniano che la combinazione tra il tipo di alimenti solidi utilizzati, la quantità effettivamente ingerita e il tempo dello svezzamento non ha funzionato. Il Dairy 2014 riporta che nei piccoli allevamenti (da 30 a 99 capi) e in quelli grandi (di oltre 500 capi) gli allevatori che utilizzano il criterio dell’età sono rispettivamente il 51.4% e il 54.8%. Il 21.5% degli allevatori utilizza il più corretto e raccomandabile criterio per il quale una vitella è svezzabile se ingerisce almeno 1 kg di mangime starter al giorno e lo fa per almeno tre giorni consecutivi.

Il periodo che intercorre tra la nascita e lo svezzamento è suddivisibile in tre fasi fisiologiche ben precise: quella colostrale, di brevissima durata; la fase monogastrica, delle prime 3 settimane; e fase di transizione, che dura fino allo svezzamento, dove la vitella diventa un poligastrico e che in teoria arriva fino all’ottava settimana, quando si può procedere alla sospensione dell’alimentazione lattea.

Fase colostrale

La fase colostrale è di vitale importanza proprio per la sopravvivenza stessa della vitella, in quanto il tipo di placenta presente nei bovini impedisce il passaggio di anticorpi dalla madre al feto durante la gravidanza. Il paradigma condiviso è che è ottimale per la vitella avere il più rapidamente possibile una concentrazione ematica di non meno di 10 gr/L di immunoglobuline IgG. Ciò si ottiene attraverso il consumo di almeno 2.5 kg di colostro, contenente almeno 50 gr/L di IgG, entro le 6 ore dalla nascita, per arrivare a 4 kg entro le 12 ore. E’ anche noto che l’assorbimento d’immunoglobuline si riduce progressivamente con il passare delle ore dopo il parto, fino ad essere pressoché nullo dopo 24 ore. Il tasso generico di mortalità perinatale ha un decorso inverso alla precoce somministrazione di colostro di qualità: può essere inferiore al 5% se la vitella ingerisce colostro nella giusta quantità e qualità entro le 6-12 ore per aumentare a oltre il 10% se ciò avviene dopo 7-12 ore. Dal Dairy 2014 si evidenzia che nel campione di allevamenti statunitensi ciò avviene mediamente a 3.6 ore. Nel 52.7% dei casi la somministrazione avviene solo manualmente mentre nel 42.7% è in forma mista, ossia con la somministrazione manuale e direttamente dalla madre. Solo il 4.6% degli allevamenti affida la somministrazione del colostro al solo allattamento materno. Tale percentuale sale al 16.8% nei piccoli allevamenti. Leggendo lo stesso dato per numero di vitelle, si evidenzia che l’81.6% di queste riceve colostro solo dalla somministrazione manuale. Negli allevamenti che utilizzano la somministrazione manuale, l’88.6% lo fa con colostro di singole bovine non pastorizzato, e ciò avviene nel 55.1% delle vitelle. Il 16.4% utilizza pool di colostro non pastorizzato e solo il 3.2% pastorizzato. Interessante notare che ben il 19.1% utilizza sostituti del colostro, e che questa percentuale sale al 24.4% nei grandi allevamenti. La pastorizzazione (63° per 30 minuti) è un metodo da tempo consigliato in quanto, anche se la concentrazione di IgG si riduce del 26%, permette di controllare la diffusione di alcuni patogeni come salmonelle e E. coli. Purtroppo questa tecnica non è di alcun aiuto nel controllare la diffusione del Mycobacterium paratubercolosis. L’87.4% degli allevamenti utilizza bottiglie per la somministrazione del colostro e l’8.1% lo fa con la sonda esofagea. L’utilizzazione di quest’ultima tecnica sale al 27.1% nei grandi allevamenti. Sempre dal report si evidenzia che la quantità di colostro somministrato al primo pasto, nei grandi allevamenti, è di più di 4 kg nel 48.4% dei casi, di 3 kg  nell’11.3% e di 2 kg nel 33.8%. Nelle prime 24 ore una vitella statunitense ha ricevuto più di 6 kg di colostro nel 56.2% dei grandi allevamenti e nel 30.4% ne ha ricevuto un totale di 4 kg. Pertanto, il 49% delle vitelle USA riceve più di 6 kg di colostro nelle prime 24 ore dopo la nascita e il 35.5% ne riceve 4 kg. Abbiamo prima puntualizzato che, oltre alla precoce somministrazione della giusta quantità di colostro, è importante che esso sia di qualità. Viene riportato nel Dairy 2014 che il 45.1% degli allevatori lo controlla visivamente, l’11.4% usa il colostrometro e il 4.1% il rifrattometro Brix.

Fase monogastrica

Il secondo periodo di vita produttiva della vitella è definita “fase monogastrica” in quanto solo l’abomaso è pienamente funzionante mentre i prestomaci non sono ancora sviluppati. Questa fase dura fino alla terza settimana dopo il parto; pertanto, l’apporto dei nutrienti è affidato al solo latte, sia esso materno che succedaneo. Le ragioni che condizionano la scelta dell’uno o dell’altro sono solo economiche in quanto, generalmente, l’uso di latte artificiale è più economico di quello materno. Nel Dairy 2014 viene riportato che il 53% delle vitelle non riceve latte artificiale, il 22.8% latte artificiale non medicato, il 40.4% latte artificiale medicato, il 33.2% latte materno non pastorizzato (vendibile e non vendibile), il 2.5% latte acidificato (vendibile e non vendibile) e il 23.7% una combinazione tra latte artificiale e latte materno. Per molti anni, per il latte in polvere da utilizzare per l’allattamento delle vitelle, è stata ritenuta ideale la concentrazione del 20% di proteina e il 20% di grassi (20-20). Se la vitella assumesse direttamente latte dalla madre farebbe dai 6 ai 10 pasti giornalieri, con una media di assunzione fino al 35° giorno di 8.8 kg di latte. Ciò è pari al 16-25% del suo peso alla terza-quarta settimana di vita. Nel Dairy 2014 si evidenzia che il 51.5% dei grandi allevamenti che utilizza latte artificiale sceglie quelli al 20% di proteine. Il 25.6% sceglie tra il 21% e il 24% e il 23% tra il 25% e il 29%. Nessuno utilizza latte in polvere con meno del 19% e più del 30% di proteina. Le molte ricerche fatte sull’argomento consigliano l’uso di polveri di latte con concentrazioni proteiche più elevate del 20%. La ragione di questo è legata alla constatazione che più il latte artificiale si avvicina alla concentrazione proteica del latte materno, maggiore sarà l’accrescimento medio giornaliero e lo sviluppo in termini di epitelio secretorio mammario. Relativamente alla concentrazione di grasso, funzionale all’approvvigionamento energetico della vitella nella fase “monogastrica”, sembrerebbe che gli allevatori statunitensi continuino a preferire i latti in polvere al 20% di grassi. Questa scelta è condivisa dall’81.7% degli allevamenti ma scende al 65.2% in quelli di grandi dimensioni. Abbiamo prima visto che il 37.6 % degli allevatori utilizza latte medicato, ossia contenente sostanze antimicrobiche o antiparassitarie. Maggiormente (12.7%) viene utilizzato il Lasalocid (agente antibatterico e coccidiostatico), il Decoquinato (11.5%), le tetracicline (6.5%) – da sole oppure associate con la neomicina (9%) – e il Monensin (1.7%). L’88.9% delle vitelle riceve il latte, sia esso materno o artificiale, 2 volte al giorno, percentuale che arriva al 96.8% nei piccoli allevamenti. Il mono pasto è utilizzato nello 0.3% delle vitelle, il terzo nel 6.8% e la somministrazione a volontà nel 2.8% dei capi. Per ogni pasto, il 46.5% delle vitelle riceve poco meno di 2 kg di latte, il 23.4% più di 2 kg ma meno di 4 kg e il 30.2% più di 4 kg. Il 61.1% degli allevamenti USA modifica la quantità di latte somministrata in funzione dell’età o del peso delle vitelle.

Fase di transizione

Per entrare nel terzo ciclo di vita della vitella, anche detta fase “di transizione”, è necessario iniziare a somministrare già durante la fase “monogastrica” alimenti solidi, come foraggi e concentrati, e acqua, per far sviluppare il rumine. Ciò avviene perché, già nei primi giorni di vita della vitella, inizia la colonizzazione del rumine da parte di batteri essenzialmente fibrolitici, come il Ruminococcus flavefaciens e la Prevotella ruminicola. Se già nella fase “monogastrica” la vitella inizia ad assumere alimenti solidi, questi batteri inizieranno gradualmente il loro processo replicativo e fermentativo. La progressiva produzione ruminale di acidi grassi volatili (AGV) crea due condizioni favorevoli. Innanzitutto gli AGV, ed in particolare l’acido butirrico, l’acido propionico e l’acido acetico, stimoleranno la crescita delle papille ruminali. Inoltre, l’assorbimento degli AGV attraverso le pareti ruminali e il loro giungere al fegato creerà una via alternativa di approvvigionamento energetico complementare al latte e che in futuro ne rappresenterà la parte fondamentale. La presenza di acqua da bere in questa fase è di fondamentale importanza non tanto per idratare la vitella, in quanto riceve direttamente dal latte l’acqua di cui ha bisogno, quanto per garantire la sua presenza nel rumine come fattore di crescita del microbiota ruminale e quindi di produzione degli AGV. Importante è anche fornire al rumine il substrato, essenzialmente di carboidrati e proteine, da fermentare. Questo può essere rappresentato da un mangime starter abbinato a foraggi ad elevatissima digeribilità oppure da appositi unifeed secchi o unifeed destinati alle bovine in lattazione. Nella fase di transizione anche gli amidi a lenta degradabilità ruminale hanno un ruolo importante per lo sviluppo dei batteri amilolitici e quindi per la produzione di acido propionico. A completare la gamma dei nutrienti indispensabili sono gli zuccheri, in quanto precursori dell’acido butirrico oggi considerato tra gli AGV quello che maggiormente stimola lo sviluppo e la crescita delle papille ruminali. La quota proteica degli alimenti solidi deve essere scelta non già per la frazione “by-pass” ma per quella rumino-degradabile, e in particolare solubile, in quanto necessaria allo sviluppo del microbiota ruminale. Per meglio comprendere le migliori diete solide da somministrare alle vitelle nella fase di transizione ci si può richiamare ai concetti utilizzati per formulare quelle della preparazione al parto delle bovine adulte. Nel Dairy 2014 viene riportato che l’acqua da bere viene messa a disposizione delle vitelle il giorno 17.3, i concentrati il giorno 10.8 e solo a 36 giorni viene iniziata la somministrazione di foraggi.

Conclusioni

Riportare quello che si dovrebbe fare e quanto realmente si fa negli allevamenti può essere di profondo interesse per l’aggiornamento professionale degli allevatori e dei professionisti. La ricerca scientifica, nella sua incessante azione di approfondimento della conoscenza sui meccanismi fisio-patologici e sulle migliori scelte nell’ambito della genetica, la gestione dell’ambiente, la salute e degli animali, fornisce indicazioni che vengono seguite più o meno integralmente negli allevamenti.

Avere una “fotografia” statisticamente significativa di cosa avviene realmente negli allevamenti serve inoltre a sfatare miti e pregiudizi, nella consapevolezza che buona parte degli allevamenti quando opta per una scelta o per l’altra lo fa per i consigli e suggerimenti ma anche e soprattutto per l’esperienza empirica basata su sbagli e successi. È proprio il caso di dire che anche in zootecnica “vox populi, vox Dei” può essere di grande aiuto.