Con una classe politica “colta” e tutti noi un pò più attratti dalla cultura forse sarebbe più facile sistemare le cose nel nostro paese ed evitare l’emigrazione di massa dei giovani in cerca di un lavoro all’estero, ridurre la diseguaglianza sociale e la povertà. Abbiamo trovato ben fatta ed estremamente interessante l’introduzione al “Programma nazionale per la ricerca 2015-2020” del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Ne raccomandiamo una lettura “lenta e concentrata” come antidoto alla celebre frase “Il sonno della ragione genera i mostri”, titolo di un famoso quadro di Francisco Goya.

Decidere di investire in ricerca significa, per l’Italia, scegliere di giocare da protagonista nello scenario globale. Programmare gli investimenti in ricerca significa poter darsi gli strumenti per determinare quale aspetto avrà il nostro Paese nei prossimi decenni. Gli ultimi anni sono stati per l’Europa anni di profondo cambiamento. Molti paradigmi sono stati ribaltati: i tempi dell’innovazione si sono accorciati, le fonti dell’innovazione sono cambiate si sono ristrutturati i mercati ed è cambiato il ruolo della tecnologia e della geopolitica, quello delle materie prime e quello dei territori nel determinare il successo economico di un continente.

Solo una cosa è rimasta immutata, anzi si è resa ancor più evidente: la centralità del sapere per il benessere delle comunità umane. Una centralità che ha una rilevanza storica per l’Europa, perché ci ricorda quello che siamo: quella europea è una civiltà che è stata costruita sul sapere, fin dalle origini. Sullo scambio di saperi, sulla circolazione di studi e di studiosi si è basata la coesione della civiltà europea anche nei periodi di maggiore difficoltà. Nel Medioevo, quando la rete diffusa di abbazie e biblioteche ha preservato l’appartenenza alla comune eredità classica a dispetto della frammentazione politica. O nel dopoguerra, quando l’impresa visionaria degli scienziati del CERN ha riconsegnato all’Europa, in anticipo sulla politica e sull’economia, un primato mondiale e una ritrovata unità in campo scientifico. La centralità della conoscenza è destinata ad aumentare. Essa è infatti l’unica policy che l’Europa ha a disposizione per incamminarsi lungo un percorso di crescita sostenibile. L’Italia ha le carte in regola per arrivare ad avere una funzione più alta in questo cammino, a due condizioni.

Anzitutto deve conoscere i propri limiti, per poterli superare. Investiamo in ricerca ancora molto meno dei nostri partner e dei paesi con cui competiamo in campo economico, in termini sia di risorse pubbliche, sia soprattutto di risorse private: dobbiamo diffondere nel Paese la fiducia nei nostri talenti e nella nostra capacità di innovare, trasformando questa fiducia in risorse ben calibrate e indirizzate. Abbiamo pochi ricercatori rispetto a quanti ne servono a un’economia avanzata. Dobbiamo aumentare la domanda interna di ricerca sia nel settore pubblico sia in quello privato. Ovunque bisogna lavorare perché il ricercatore diventi un role model della nostra società, un modello da seguire e un asse portante dell’innovazione.

Inoltre, siamo ancora poco capaci di assegnare priorità alle iniziative di ricerca, mentre abbiamo alcune vocazioni su cui occorre puntare, con la consapevolezza che non specializzarsi in un’economia globale di 7 miliardi di persone significa rischiare di rimanere ai margini della competizione disperdendo energie e risorse. In secondo luogo l’Italia deve puntare sui propri punti di forza.

I ricercatori italiani sono ancora pochi rispetto al necessario, ma sanno competere ed eccellere sia nel numero e nella qualità delle pubblicazioni scientifiche, sia nel vincere i bandi internazionali più prestigiosi, come quelli dell’European Research Council. Possiamo contare sulla seconda manifattura d’Europa e su un gruppo abbastanza numeroso di piccole e medie imprese leader nei propri settori, che ha saputo rinnovarsi per sopravvivere ed è oggi capace di produrre ricerca e innovazione di qualità competendo sui principali mercati internazionali e alleandosi alle grandi imprese nazionali nel ruolo di traino per il resto del Paese.

Su questi punti di forza abbiamo il dovere di puntare. La ricerca deve tornare centrale nell’agenda politica del Paese e far crescere il suo ruolo all’interno dell’Unione Europea. Dobbiamo stringere i legami tra ricerca e problemi della società, avvicinando i cittadini all’importanza della ricerca; e al contempo assicurarci che la scienza sia un canale per il dialogo tra i popoli, prima e meglio della politica”.