A pensare male si fa peccato ma quasi sempre ci si indovina”. Con questa celebre frase Giulio Andreotti consiglia di avere sempre un atteggiamento non dogmatico ma dubitativo nei confronti di quanto viene affermato e divulgato.

Seguendo il consiglio di questo controverso politico italiano del passato proviamo insieme a ragionare sul perché cibi antichissimi come il pane, il vino, il latte e le carni siano ritenuti da molti nocivi per la salute dell’uomo. Se prima non facevano male perché ora sono da evitare? Sono cibi che l’uomo attraverso la selezione genetica ha “cambiato” troppo? Sono cibi che fanno male perché contengono inquinanti chimici pericolosi? O fanno male perché l’industria del cibo artificiale, o meglio degli “ultraprocessed food” (alimenti ultra processati), ha interesse a screditarli?

E’ difficile dare risposte “non ideologiche”. Senza scomodare gli epidemiologi, basta ascoltare chi vive intorno a noi per scoprire che tanti pensano, a torto o a ragione, che il pane gli faccia male, che la pizza è indigeribile o che non possono bere più il latte o mangiare formaggi.

Ci si mettono anche i medici che spesso affermano che mangiare troppa frutta significa ingerire troppi agro-farmaci; che la carne, specie se rossa, fa male e che, insieme ai prodotti del latte, aumenta il rischio dei tumori e delle allergie; che poi in fondo siamo tutti celiaci e che quindi è bene astenersi dal consumare i prodotti del grano che fanno pure ingrassare e venire il diabete.

La gente è confusa e programmare la propria dieta è diventato impossibile a meno che non si mangino barrette o cibi ultra-lavorati che mai vengono sospettati di veicolare sostanze chimiche pericolose o molecole cancerogene o allergizzanti. Sono pochi i temerari nutrizionisti che osano puntare un dito accusatorio nei confronti degli alimenti ultra processati dell’industria.

Eppure in Europa esistono numerosissime Agenzie di tutela della salute umana e un‘impalcatura legislativa ispirata al “principio della precauzione”, ossia basata sul fatto che se non vi è l’assoluta certezza che una molecola o quant’altro non faccia male non si può utilizzare. Il “principio della precauzione” è esplicitamente inserito e spiegato nell’artico 191 del “Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea”.

Nonostante tutto ciò, i cittadini europei non si fidano completamente delle istituzioni per essere certi della sicurezza del cibo, di un farmaco o di un prodotto chimico. E’ ancora vivido in tutti noi il ricordo di prodotti autorizzati perché sicuri poi rivelatisi in seguito pericolosi. Negli anni 60 si diffuse a macchia d’olio nelle famiglie italiane un antisettico orale dal nome Formitrol. Era considerato talmente sicuro ed efficacie da essere consumato come una caramella. Il principio attivo del Formitrol era la formaldeide e ogni pastiglia ne apportava 0.01 grammi. Nel 2004, ossia dopo 40 anni di consumo a volte improprio, la IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) ha inserito la formaldeide nel gruppo 1, ossia tra le sostanze sicuramente cancerogene. Nel 1939, per debellare la malaria nel mondo si fece un uso massiccio del DDT (para-DicloroDifenilTricloroetano) per uccidere la zanzara del genere Anopheles vettore del parassita (Plasmodium) che causa la malattia. Il DDT fu sintetizzato per la prima volta nel 1873. Nel 1972, ossia dopo 33 anni d’impiego, ne è stato vietato l’uso prima negli Stati Uniti e poi, l’anno successivo, anche in Italia per l’elevata persistenza di questa molecola nell’ambiente e per la sua elevata pericolosità per la salute umana e animale. Ultimo esempio che ha segnato indelebilmente il “sentire collettivo” è stato quello della Talidomide, farmaco sedativo e contro la nausea che ha cusato ad innumerevoli donne gestanti la nascita di figli amelici (senza arti) o focomelici (arti più corti).

Da allora, molte sono state le sostanze chimiche autorizzate per essere utilizzate come additivi alimentari, farmaci e agrofarmaci, e dall’industria e molte e profonde sono state le modificazioni genetiche apportate alle bovine e alle piante anche solo con la selezione genetica e non necessariamente con l’ingegneria genetica (OGM).

In teoria ciò che è utilizzabile,  specialmente in Europa dove vige il “principio della precauzione” , è sicuro e privo di rischi ma molti cittadini “dubitano” ed evocano un ritorno al passato dove si utilizzavano pochissime sostanze chimiche, dimenticando che allora si moriva per banali infezioni, tutti erano infestati di parassiti e che molti dei cibi che si consumavano erano pieni di muffe e batteri.

Ciò che preoccupa molto i cittadini europei è se le Agenzie che tutelano la salute, i legislatori e le varie strutture amministrative come i ministeri siano veramente imparziali e non influenzabili e corruttibili nelle decisioni che prendono quando autorizzano l’uso di una nuova cultivar o di nuove molecole.

L’inchiesta svolta dalla stimata e nota giornalista Milena Gabanelli, divulgata il 2 Aprile 2019 su Dataroom del Corriere della Sera, dal titolo “Ue, 11.800 lobby per influenzare Commissione e parlamentari. I casi di corruzione” ha alzato una sipario inquietante su un sospetto dell’uomo comune.

Le Lobby sono gruppi di pressione organizzati da persone che cercano di influenzare dall’esterno le istituzioni per favorire particolari interessi. Per evitare ogni rischio oggettivo e rassicurare i cittadini, esiste in Europa il “Registro per la trasparenza” della Commissione Europea che è una banca dati che elenca le organizzazioni che cercano di influenzare il processo legislativo e di attuazione delle politiche delle istituzioni europee. Il registro mette in evidenza quali sono gli interessi perseguiti, chi li persegue e con quali risorse finanziarie, e in questo modo rende possibile il controllo pubblico offrendo ai cittadini e ad altri gruppi di interesse la possibilità di monitorare le attività dei lobbisti. Nel quadro dell’impegno della commissione a favore della trasparenza, i commissari, i membri dei loro gabinetti e i direttori generali pubblicano informazioni sui loro incontri con organizzazioni o liberi professionisti. Le riunioni riguardanti l’elaborazione e l’attuazione di politiche nell’EU possono aver luogo soltanto se i rappresentanti d’interessi sono iscritti nel registro per la trasparenza dell’EU.

“Il lavoro del lobbista è quello di contattare commissari ed eurodeputati trasmettendo loro idee per emendare questa o quella norma. Commissari e deputati, a loro volta, hanno bisogno di confrontarsi per sapere quanto e come incidono le direttive nei vari settori dell’impresa e della società. Un’attività legale quindi, purché avvenga alla luce del sole. Infatti ci sono delle transenne: se vuoi incontrare un commissario europeo, per esempio, devi essere iscritto nel Registro della Trasparenza. Ma il problema dei controlli resta: «Mentre la Commissione obbliga i lobbisti a registrarsi prima che qualsiasi incontro possa aver luogo – spiega Raphael Kergueno, del sito Integrity Watch legato a Transparency International –, esercitare il lobbismo con gli eurodeputati e i delegati nazionali al Consiglio resta invece un’attività largamente non regolata. Solo quando il registro coprirà tutte e tre le istituzioni potremo verificare i comportamenti di coloro che a Bruxelles prendono le decisioni politiche».

Sempre secondo l’inchiesta di Milena Gabanelli, nel 2017 in Europa le lobby hanno speso o investito (dipende dai punti di vista) 1.5 miliardi di euro mentre negli USA nel 2018 sono stati spesi 3.1 miliardi di dollari. La sola European Chemical Industry Council (CEFIC) ha speso/investito 12 milioni di euro, Google 6 milioni e l’italiana Altroconsumo 5 milioni. Il nostro paese ha attive in Europa 841 lobby, pari al 7.1% del totale.

Come evidenziato dalla tabella sovrastante e dalle premesse fatte, le lobby sono anche organizzazioni che operano in nome e per conto della scienza e della salute della gente. Di conseguenza, il concetto di lobby ha sicuramente in sè anche valenze positive. La definizione di lobby non è quindi pregiudizialmente negativa.

Quello che manca a mio avviso, per rassicurare ulteriormente la gente e permettere la diffusione di cibo e molecole oggettivamente sicuri, è una migliore e diversa comunicazione. Molto deve essere fatto dai singoli governi europei per promuovere verso i cittadini, i giornalisti e i medici informazioni non “naife” sull’origine dei vari cibi in modo da non promuovere indirettamente comportamenti irrazionali e pericolosi per la salute e l’ambiente. Di converso, è fondamentale assumere comportamenti duri e punizioni esemplari verso chi promuove la disinformazione, soprattutto se spinta da interessi commerciali. La comunità scientifica, ultimamente assente da ogni dialogo pubblico, deve riprendere il ruolo d’esperto e sorvegliare e sanzionare chi dei suoi membri è in palese “conflitto d’interessi”. Casi come il boom del consumo di Vitamina D negli Usa stimolato da un accademico poi esautorato dei suoi compiti, la controversa tossicità del Glifosato, il più meno giustificato uso a “tappeto” delle statine, dell’Eutirox e quant’altro devono spingere la comunità scientifica e i governi a non procastinare ulteriormente autorevoli e decise prese di posizione. Gli ambigui silenzi sono pericolosi  per i cittadini e poco lungimiranti per le lobby anche se “l’osbsolescenza programmata” del Roundup ha fatto scuola.

Stiamo poi seguendo con particolare attenzione e indignazione i più che fondati sospetti di elevatissima pericolosità del bisfenolo A, molecola presente in molti materiali plastici e prodotta in enorme quantità dal 1891!