Sappiamo ormai che in ogni popolo che esce dalla povertà e quindi dalla fame aumenta il numero di persone sovrappeso e obese. L’aumento del grasso viscerale e il conseguente rilascio di adipochine, ossia citochine infiammatorie, è responsabile dell’ipertensione, del diabete e del rischio cardio-vascolare, una piaga degli ultimi decenni. Nel mondo, le persone sovrappeso sono veramente molte, basti pensare che negli USA rappresentano il 66.7 % della popolazione. In Europa il primato è invece detenuto dall’Inghilterra. Nel nostro paese la percentuale di persone obese (10%) è tra le più basse d’Europa, preceduta solo dalla Romania (9%). Gli italiani in sovrappeso sono invece il 35% della popolazione, una percentuale tendenzialmente in crescita nei bambini. Responsabili di questa situazione ad alto costo sociale sono la scarsa attività fisica e il consumo elevato di zuccheri e grassi saturi, contenuti specialmente in quello che gli anglosassoni chiamano “junk food”, o cibo spazzatura, e nelle bevande zuccherate. Nei paesi più poveri è proprio questo tipo di alimentazione la causa dei problemi legati all’obesità.

Il nostro paese, come del resto molti degli stati occidentali, dopo i periodi bui della guerra ha conosciuto lo sviluppo industriale e quindi economico. Lo stile alimentare d’allora era molto diverso da quello attuale. I pasti principali erano infatti sempre costituiti da primo e secondo piatto e nei pranzi conviviali a ciò si sommava l’antipasto, il dolce e l’immancabile liquore. Fino a non molti anni fa si faceva poco caso al sovrappeso e al rischio che ciò rappresenta per molte gravi malattie. Negli ultimi anni il rapporto con il cibo è radicalmente cambiato grazie ad una maggiore attenzione alla salute e all’aspetto fisico. Oggi l’obesità è percepita come un vero e proprio handicap che in in certi ambienti porta alla emarginazione sociale, mentre nell’antichità era considerato uno status symbol, al punto che si rappresentavano obese alcune divinità come la Madre Terra o il Budda.

L’attenzione alla salute e la ricerca dell’omologazione ha cambiato profondamente la struttura dei pasti soprattutto nei giovani adolescenti e nelle fasce più agiate della popolazione. Si dice scherzosamente che i ricchi, pur potendoselo permettere, “non mangiano”, inseguendo un aspetto estetico tipico della gente povera dei paesi sottosviluppati. Un esempio su tutti quello delle modelle anoressiche. Sembra quindi che si stia affermando l’idea di mangiare meno e di mangiare meglio, e per meglio s’intende cibo sempre più sicuro e prodotto in modo etico. Cibo che, anche se ricco di “senza”, costa nettamente di più di quello tradizionale. Un popolo satollo e attento alla propria salute cerca nel cibo anche esperienze sensoriali e la condivisione di stili di vita, e punta ad una nutrizione funzionale.

Questo profondo cambiamento del comportamento alimentare ha necessariamente un impatto sulla produzione primaria di latte e di carne. Ci sarà sempre la necessità di produrre grandi quantità di questi prodotti per sfamare la crescente popolazione del nostro pianeta, molta della quale non si è ancora affrancata dalla fame. Non sarà però l’Italia la protagonista nelle produzioni del latte e della carne commodity, ossia a basso prezzo, in considerazione del fatto che abbiamo una superficie agricola irrigua coltivabile limitata e che siamo ancora ben lontani dall’autosufficienza nella produzione di alimenti zootecnici. Il nostro paese è sicuramente il meglio “attrezzato” per la produzione di prodotti del latte e della carne ricchi di aspetti salutistici, sensoriali e narrativi.

Abbiamo osservato con piacere e stupore la rapidissima crescita della domanda di carne bovina di animali nati, allevati e macellati in Italia non tanto perché siano più buoni e nutrienti di quelli nati in una nazione estera, ma perché maggiormente evocativi del tanto desiderato Made in Italy. Anche le nostre DOP, IGP e STG del latte si stanno sempre più caricando di aspetti evocativi e narrativi, al punto di evolvere in vere linee di prodotto, come ad esempio sta succedendo al Parmigiano Reggiano di cui esiste quello di montagna, quello biologico, no OGM, di vacche rosse, etc.

Se, come chiaramente appare, l’identikit del cibo prodotto in Italia è lontano da quello degli alimenti che fondamentalmente hanno la sola funzione di eliminare la fame, o comunque dal junk food, significa che il latte dei prodotti a denominazione e delle PAT, ma anche quello da bere, e la carne delle bovine italiane possono, e devono, avere un prezzo più alto da riconoscere all’allevatore. Questo posizionamento verso l’alto giustifica e incoraggia gli investimenti in estetica degli allevamenti, nel comfort degli animali e comunque verso tutti quei temi che presumibilmente orienteranno gli acquisti dei consumatori soprattutto occidentali. Anche se nelle pianure irrigue italiane si possono produrre in maniera competitiva la carne e il latte commodity forse non è questa la strada più giusta da percorrere. Le aree marginali per sopravvivere hanno solo le possibilità fornitegli dalla produzione dei cibi emozionali e la zootecnia di pianura può cominciare a valutare i limiti del concetto di economia di scala e il produrre sempre di più a costi sempre più bassi, in un mondo, come quello occidentale, che sta riducendo i consumi e punta sempre di più al mangiare meno ma mangiare meglio.