Il fatto che gli animali d’allevamento nell’ambito della medesima razza si somiglino molto non significa che siano identici. Mi raccontava la compianta Fabiola Canavesi che in un congresso di genetica un vecchio professore ricordò ai presenti che anche i cloni sono individui, a testimonianza del fatto che una certa variabilità fenotipica nell’interazione con l’ambiente, la gestione, la sanità e la nutrizione esiste anche tra gli esseri identici.

Tralasciando la questione cloni, è bene ricordare che la variabilità genetica è una condizione imprescindibile per la selezione naturale anche in popolazioni ad elevato coefficiente di consanguineità. Questi concetti devono essere ben chiari a chi alleva animali e a chi fornisce servizi professionali di assistenza e di consulenza, perché il rischio di prendere decisioni errate può avere gravi conseguenze.

Ho affrontato diverse volte questo argomento perché mi sembra che nella pratica quotidiana l’individualità degli animali non sia così scontata. Negli allevamenti, specialmente quelli che chiamano “intensivi”, gli animali ricevono generalmente una dieta unica, quasi sempre di tipo TMR o unifeed, che dipende dalla fase del ciclo produttivo nella quale si trovano. Questo modo di dare loro da mangiare fa sì che la razione sia uguale per tutti, e che gli animali ricevano gli stessi ingredienti (e nello stesso rapporto tra loro) per 24 ore al giorno. I nutrizionisti e gli alimentaristi nel corso delle visite agli allevamenti controllano se gli animali possono scegliere gli ingredienti della razione (sorting) e se lo scarto è omogeneo. Fanno questi controlli visivamente, con il PSPS (Penn State Particle Separator) oppure con NIRS portatili. Nelle stalle ben gestite le bovine hanno un loro spazio in mangiatoia accessibile H24, acqua da bere a volontà e un posto in cuccetta o sulla lettiera dove riposare. A gestire il clima d’estate ci pensano i sistemi di raffrescamento, e la mungitura, due o tre volte al giorno che sia, è uguale per tutti.

Detto questo, allora perché quasi sempre ad essere zoppe non sono tutte le vacche ma solo alcune? Perchè ci sono mastiti solo in alcuni capi, e cisti e diagnosi di gravidanza negative non investono mai la totalità degli animali che si trovano più o meno alla stessa distanza dal parto ma solo alcuni?

Se si osservano con estrema attenzione i dati dei controlli funzionali degli animali, o quelli dei sensori e dei software di gestione dei singoli soggetti, si nota un’elevata variabilità tra individuo e individuo. Succede anche che ruminanti da latte che hanno trascorso il periodo di transizione in condizioni altamente standardizzate presentino, sia durante il puerperio che nelle settimane successive, performance produttive, riproduttive e sanitarie, a parità di giorni di lattazione e numero di parto, molto variabili. Gli allevatori e i buiatri attenti compilano con attenzione la scheda clinica di ogni animale per verificare, quando occorre, se il soggetto che ha problemi ha avuto una storia clinica negativa durante il passato.

Quello della medicina di massa è stato, ed è, un sogno ricorrente che dagli allevamenti di monogastrici ha contaminato quelli di ruminanti. Secondo questa corrente di pensiero, in caso di problemi di qualche animale d’allevamento si deve sempre e comunque intervenire su tutti con sostanze farmacologiche, additivi o cambi di razione. Questo approccio semplificato e deresponsabilizzante ha creato costi aggiuntivi e mancati ricavi per gli allevatori.

E’ ancora radicata nel sentire collettivo, specialmente per chi si occupa di bovini, sia da latte che da carne ma anche di bufale, l’idea che una razione possa essere causa o soluzione di patologie riproduttive, flemmoni, mastiti cliniche e sub-cliniche, e bassa qualità della carne, sempre se non è ammalata la totalità degli animali ma solo una percentuale che spesso non supera il 15%. Capita che allevamenti dove sono state diagnosticate laminiti, anche in un numero limitato di animali, modifichino razioni riducendo l’amido e/o le proteine senza un’anamnesi accurata, auspicandosi che nel giro di pochi giorni la situazione rientri nella normalità. Lo stesso avviene anche per le mastiti e tutte le patologie riproduttive, comprese le diagnosi di gravidanza negative. Se non si conoscono la fisiologia del rumine e la sua estrema lentezza nell’imparare una nuova dieta si rischia di fare ulteriori danni sugli animali derivanti dai continui cambi di razione e dal procedere per tentativi.

In questo contesto ci vengono in aiuto la clinica individuale e la medicina comparata, ossia il confrontarsi con i colleghi medici che si occupano dell’uomo. Prima di modificare eventuali fattori di rischio collettivi, come una dieta “sbagliata” per eccessi o carenze alimentari, è bene fare un’accurata rilevazione della storia clinica dei soggetti ammalati per i quali si stanno modificando alcune situazioni collettive. In caso, ad esempio, di patologie ovariche, è bene agire con interventi di massa solo se le bovine ammalate non hanno alle spalle una storia clinica significativamente negativa.

Molto importante è verificare se tutte le bovine hanno un’alimentazione omogenea e un accesso all’acqua da bere davvero uguale per tutti, perché se così non fosse è inutile cambiare qualcosa a tutti gli animali del medesimo gruppo. L’approccio olistico che ormai ci guida su tutte le scelte tattiche e strategiche che si fanno in allevamento altro non è che quello plurifattoriale, unica via per intervenire sulle sindromi nell’ambito delle quali si riconducono molte patologie d’allevamento, come la sindrome della sub fertilità, gli stati infiammatori della mammella, la zoppia e la sindrome della bassa produzione di latte in autunno.

Per ricollocare correttamente i fattori di rischio ed eziologici individuali e collettivi sarebbe bene ricordare che sia una patologia che una performance sono fenotipi, e che come tali sono il risultato di un’interazione tra genetica, ambiente, management, sanità e nutrizione. A seconda del fenotipo e del peso relativo di queste variabili si calibrano gli interventi. Utilizzando come esempio l’ambito della fertilità, se il tasso di concepimento, ossia la percentuale di animali che rimangono gravidi dopo un intervento fecondativo, è molto basso, va messa sotto osservazione un’enorme quantità di variabili, dandogli il giusto peso relativo.

Pensare di migliorare la fertilità di un allevamento concentrandosi solo su una variabile, o procedere per tentativi, non dà mai risultati positivi. E’ invece consigliabile muoversi come un investigatore, ossia inviare alla genetica, all’ambiente, alla gestione dell’allevatore e del veterinario, alla sanità e alla nutrizione un “avviso di garanzia”, in modo da considerare tutti colpevoli fino a prova contraria.