Con il documentario Food for Profit di Giulia Innocenzi e Pablo D’ambrosi, il veganesimo, mascherato da animalismo, ha fatto il salto di qualità. La proiezione di questo film ai politici italiani ed europei, e il successo che sta riscontrando nei cinema di tutta Italia, non possono lasciare indifferenti e devono stimolare l’abbandono dell’atteggiamento “tanto passerà” oppure del “più se ne parla e più gli si dà importanza”.

Ruminantia gli ha dedicato ben due articoli, usciti in contemporanea, dal titolo “Il populismo animalista” e “Abbiamo visto Food for Profit”, dei quali consigliamo un’attenta lettura, invitando comunque tutti a vedere integralmente il documentario.

In Italia, al momento, non ci sono movimenti animalisti che auspichino una vita migliore per gli animali d’allevamento. Tutti, forse con l’eccezione della CIWF, apparentemente si battono per la chiusura degli allevamenti così detti “intensivi”, ma in realtà sono contro l’allevare e il cibarsi degli animali e dei loro prodotti.

Ad inizio gennaio 2024 è cominciata in tutta Europa, e quindi anche in Italia, quella che per semplificazione chiamiamo la “protesta dei trattori”, ossia la protesta di agricoltori e allevatori stufi di guadagnare poco, di essere vessati da una burocrazia asfissiante e di essere come vasi di coccio tra i giganti che commercializzano ciò che serve per coltivare la terra e allevare gli animali, l’industria di trasformazione e la GDO.

Inizialmente questa protesta “anarchica” e spontanea ha accolto il favore della gente comune. Il messaggio “noi produciamo cibo per voi con immensi sacrifici e guadagnando poco o nulla” è arrivato in profondità nel cuore delle persone, le stesse che acquistano e votano.

Quando invece si è voluto dare la responsabilità del disagio dell’agricoltura e della zootecnia all’Europa e al suo Green Deal, abbiamo avuto l’impressione che l’innamoramento dei cittadini rapidamente si sia affievolito.

La gente ha bisogno di informazioni semplici e comprensibili. Dire che è merito degli agricoltori produrre cibo sano e accessibile per tutti e definirli custodi del territorio e, contemporaneamente, criticare un Green Deal che vuole lasciare una parte della terra non coltivata per tutelare la biodiversità e ridurre l’utilizzo di agrofarmaci, concimi e antibiotici ha spiazzato e confuso l’opinione pubblica.

Anni e anni di pubblicità ingannevole in cui si voleva far passare il messaggio che gli animali d’allevamento vivono su pascoli paradisiaci hanno poi dato una facile vittoria a chi è contro la zootecnia. La storia dovrebbe insegnare a non fare sempre gli stessi errori, perché di tempo per reagire in maniera intelligente alla deriva dei vegani e dei giganti del cibo ultraprocessato ce ne è veramente poco.

La proposta di Ruminantia è la seguente:

  • Acquisire la consapevolezza che gli allevamenti esisteranno fintanto che la gente ne consumerà i prodotti e che una regola del commercio è “il cliente ha sempre ragione” (anche quando non ce l’ha).
  • Evocare censure e limitazioni della libertà di espressione, per non dire querele e diffide, è assolutamente controproducente, a meno che non riguardi una singola persona o una singola impresa.
  • Non consigliamo di reagire all’aggressività del populismo vegano con la tecnica “occhio per occhio, dente per dente”, perché sicuramente non funziona e la storia ce lo ha insegnato.
  • Non funziona neppure l’atteggiamento vittimistico del “non ci capisce nessuno” e il messaggio che allevare gli animali sia un martirio. I social sono zeppi di questa retorica di auto-commiserazione che puntualmente scatena l’effetto contrario al motivo per il quale i post vengono diffusi.
  • Contrappore i nostri dati sull’impatto ambientale, e sull’utilizzo di antibiotici e agrofarmaci serve a poco perché questi giornalisti e movimenti non sono assolutamente interessati al dialogo costruttivo. I dati vanno diffusi con pacatezza e sobrietà ai media generalisti e direttamente alla gente.
  • Gli allevatori italiani sono pochi (356.513 al 31 dicembre 2023) mentre la popolazione italiana conta 58.940.000 (al 2012) persone. Gli allevatori sono quindi un misero 0.6% della popolazione, scarsamente interessante a  livello elettorale ma molto significativa a livello strategico perché la sicurezza alimentare, ossia la possibilità che ogni membro della nazione possa accedere a cibo sano e abbondante, è garanzia di libertà.
  • Rendere gli allevamenti visitabili, ossia puliti, ordinati e privi di situazioni di sofferenza animale, è un’ottima strategia di comunicazione che, se pur lenta rispetto ai media, può fare molto.
  • Allevatori e tecnici formati al linguaggio che parla la gente comune possono fare molto, andando a raccontare nelle scuole di ogni ordine e grado e nei dibattiti pubblici la realtà ma anche le criticità degli allevamenti.
  • Ci sono alcune situazioni, come la separazione precoce del vitello dalla madre, certe infrastrutture come gabbie e auto-catture, e il sovraffollamento degli animali, che sono difficilmente spiegabili ai cittadini; è necessario prenderne atto e adottare alternative.
  • La medicina veterinaria che si occupa di animali da reddito, ed in particolare la FNOVI, il SSN e le associazioni scientifiche, dovrebbero uscire dalla “bolla” dove si sono asserragliate ormai da anni e riconnettersi con la società civile e le sue necessità anche di tipo etico, perché se non ci saranno più animali da allevare non ci saranno più veterinari che li devono curare e cibo da controllare.