Nei principali indici di selezione genetica della frisona, il peso del carattere “chilogrammi di proteina nel latte“ è piuttosto rilevante. Nell’indice italiano PFT è di kg 35, nel TPI statunitense di kg 17 e nel PD11 israeliano di kg 23.7, solo per citare alcuni tra i più importanti. La risposta fenotipica delle bovine non si è fatta attendere. Nella frisona italiana, nel 2016 è stata del 3.42% (P/V) e nel 2017 sarebbe sicuramente cresciuta ulteriormente se non ci fossero state alcune importanti limitazioni nella nutrizione, dovute essenzialmente alla capacità del rumine di produrre una maggiore quantità di proteina metabolizzabile (MP) di origine batterica e ad una indisponibilità di fonti proteiche a ridotta, o nulla, degradabilità ruminale ma con elevata concentrazione di amminoacidi essenziali, come sono le proteine di origine animale oggi utilizzabili nel Nord-America.
Questa sostanziale limitazione legislativa rende difficile il paragone fenotipico, e quindi genetico, del latte di quest’area geografica con quello del resto del mondo. Con questi indici di selezione, si prevede che nei prossimi 50 anni raddoppierà la produzione di “solidi” del latte, come il grasso e le proteine, ma crescerà sempre di più la distanza tra fenotipo e genotipo, fatto che, nella vacca in lattazione non gravida (fase di priorità metabolica assoluta della mammella), provoca alcune ripercussioni negative sulla salute e la fertilità delle bovine.
Il biomarker “proteina del latte <2.90%” nelle singole bovine nelle prime settimane di lattazione (LMP) è oggetto di grande attenzione per due motivi principali. Il primo è che la sua prevalenza in Italia è di circa il 20-30%, con picchi tra il 30-35% nelle bovine tra i 31 e i 45 giorni di lattazione e di razza frisona. Altro dato preoccupante, ma coerente con questa osservazione, è che le bovine, da 2 settimane prima del parto a 5 settimane dopo, perdono kg 21 di proteine, che corrispondono grosso modo a kg 119 di massa muscolare. Quando un animale, o un uomo, ricorre alle riserve muscolari per liberare amminoacidi come la glutammina per utilizzarli a fini energetici, significa che lo stress metabolico è talmente grave da ridurre la funzionalità del sistema immunitario e dell’apparato riproduttivo. E’ quello che succede nella fase terminale di tumori gravi.
Cosa fare quindi per ridurre il bilancio proteico negativo (che è anche energetico) delle bovine nelle prime settimane di lattazione? La prima cosa da fare è verificare se la digeribilità ruminale dei carboidrati della dieta è adeguata. Questa verifica viene effettuata quantificando la quota di NDFD (NDF digeribile) e di uNFD, ossia di NDF indigeribile della razione alimentare. Più elevata è la percentuale di NDFD e più bassa quella dell’uNDF, maggiore sarà la quantità di proteina metabolizzabile batterica che deriva dai batteri che fermentano la fibra. Sappiamo che per avere un elevato tasso di crescita di questi batteri sarà necessaria una quota elevata di azoto solubile, zolfo e, soprattutto, un pH ruminale prossimo al 6.00. La via più rapida per aumentare la quantità di proteina metabolizzabile batterica è aumentare la quota di carboidrati non strutturali, come gli amidi e gli zuccheri, tenendo conto del fatto che il tasso di crescita dei batteri che fermentano gli amidi è massimo ad un pH ruminale prossimo al 5.80, e quindi all’acidosi ruminale.
Una razione che contiene una quota elevata di NDFD, proveniente sia dai foraggi che dai concentrati fibrosi, può stimolare la produzione fino a farle raggiungere oltre 1500 grammi di MP al giorno, quota che comunque rappresenta meno del 50% del fabbisogno totale di MP in bovine al picco produttivo. La MP che deriva da alimenti a bassa degradabilità ruminale ha spesso un bilanciamento amminoacidico non ottimale sia nel rapporto lisina/ metionina (ideale 2.8:1) che nell’apporto degli altri 8 amminoacidi essenziali. Il biomarker LMP, misurato nelle vacche nelle prime settimane di lattazione, ed in particolare nel momento in cui ha la massima prevalenza (31-45 giorno di lattazione), testimonia inequivocabilmente una generica “carenza secondaria di proteina metabolizzabile”, ma potrebbe indicare anche solo una carenza relativa di uno dei 10 amminoacidi essenziali.
I software che gestiscono il CNCPS sono in grado d’individuare uno o più amminoacidi limitanti, ed in particolare la lisina e la metionina. Il biomarker LMP, se costantemente monitorato, fornisce informazioni preziose ai nutrizionisti ed ai veterinari perché rappresenta un importante fattore di rischio per la produzione dell’ormone IGF-1, la gluconeogenesi, la lipidosi epatica e per la sopravvivenza dell’embrione nella fase di pre-impianto. Il concetto generale che deve essere condiviso per comprendere il valore diagnostico della LMP è: la mammella di un bovina non gravida in lattazione ha la priorità metabolica assoluta nei confronti degli altri tessuti. Una carenza primaria, o relativa, di uno o più amminoacidi impedirà il completamento della sintesi di caseina del latte. Ci sono amminoacidi, come quelli essenziali, la cui probabilità di carenza è più alta. Vista la priorità metabolica assoluta della mammella, se uno o più amminoacidi sono carenti per la sintesi della caseina lo saranno anche per tessuti che non hanno la priorità metabolica, come quello epatico, quelli dell’apparato riproduttivo (ovaie e utero) e del sistema immunitario.
Oltre ad un attento studio della razione utilizzando il CNCPS, da anni si utilizza la tecnica del dose-risposta. Se dal bilanciamento amminoacidico teorico del CNCPS si evidenzia che il primo amminoacido limitante è la metionina si esegue il test dose-risposta somministrandola, ovviamente in forma rumino-protetta, al gruppo fisico o virtuale (robot e/o auto-alimentatori) delle bovine “fresche” per vedere se si riduce la percentuale di bovine con una percentuale di proteina del latte < 2.90%, o se aumenta la percentuale di proteina del gruppo a cui viene somministrata. Lo stesso si può fare con la lisina rumino-protetta.
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