Un nuovo studio, i cui risultati sono stati di recente pubblicati sull’importante rivista scientifica Science advance (A heritable subset of the core rumen microbiome dictates dairy cow productivity and emissions), getta nuova luce sulle complesse interazioni tra genetica animale e microbioma intestinale.

Oltre a svolgere un ruolo chiave nella digestione degli alimenti fibrosi e nel fornire sostanze nutritive all’animale ospite, il rumine, in quanto sede di una delle più complesse comunità microbiche conosciute dall’uomo, ha da tempo attratto l’interesse dei microbiologi, oltre che quello di fisiologi e nutrizionisti. Queste attività consentono ai ruminanti di fornire agli esseri umani alimenti, principalmente latte e carne provenienti da materiale vegetale non commestibile per l’uomo, compresi i sottoprodotti agroindustriali, e permettono a molte comunità rurali di tutto il mondo di sopravvivere dove i seminativi sono impossibili. A tutto questo è tuttavia associato un costo ambientale in quanto i ruminanti, attraverso il loro microbioma ruminale, producono quantità significative di gas a effetto serra, metano in primo luogo.

Dato il ruolo centrale svolto da questo microbioma nell’utilizzazione degli alimenti, è logico che l’efficienza produttiva sia ad esso collegata. Da questo punto di vista è già stata dimostrata l’esistenza di un’associazione tra i componenti del microbioma e il residual feed intake (ovvero la differenza tra l’effettiva ingestione di alimenti di un animale e quella prevista).

Caratterizzare, in termini sia qualitativi che quantitativi, il microbioma ruminale e comprenderne i molteplici ruoli svolti nell’interazione ambiente – animale ha quindi rilevanza scientifica, economica e ambientale.

I componenti principali del microbioma ruminale sono oggi conosciuti, anche se, in termini di diversità microbica, siamo ancora lontani dall’avere un quadro dettagliato di ciò che alberga a livello ruminale, dato che conosciamo solamente il 20 % circa delle specie batteriche che vivono nei prestomaci. Le specie microbiche che conosciamo sono quelle più largamente rappresentate e che costituiscono la gran parte della biomassa, tuttavia dobbiamo riconoscere che una parte non trascurabile delle specie e attività microbiche rimane per noi ancora nell’ombra.

Delle tre principali componenti di questo microbioma, quella principale è indubbiamente rappresentata dai batteri, rappresentati da una grande ricchezza di specie simbiotiche che sono geograficamente abbastanza costanti tra le diverse specie di ruminanti e anche tra i singoli animali. I protozoi ciliati, che pure possono rappresentare fino a circa la metà della biomassa microbica ruminale, rappresentano una popolazione molto specializzata e sono costituiti da specie che si trovano unicamente nel rumine, ma la composizione di queste comunità è molto più variabile rispetto ai batteri. Come noto, i ruminanti possono vivere anche senza protozoi ed anzi, in certe condizioni, gli animali defaunati risultano addirittura più efficienti. Il terzo gruppo è rappresentato dai funghi anaerobici che, pur meno numerosi, sembrano svolgere un ruolo importante nella demolizione delle pareti cellulari vegetali più resistenti.

Attori microbici meno noti sono invece gli Archaea, che però svolgono un ruolo chiave nel metabolismo ruminale, e in particolare nella produzione di metano.

Analogamente a quanto avviene per il microbioma intestinale umano, del quale è noto il ruolo sulla salute dell’ospite, diversi studi hanno già messo in evidenza l’esistenza anche di un controllo del microbioma ruminale operato dall’ospite. Queste connessioni sono ad oggi molto meno conosciute sia nei loro meccanismi che nelle loro ripercussioni in termini di salute animale e di efficienza produttiva.

Lo studio appena pubblicato ha potuto utilizzare un numero di animali e di misure fenotipiche senza precedenti, frutto di 4 anni di lavoro svolto da undici gruppi di ricerca europei e da collaborazioni internazionali, nell’ambito di un progetto di ricerca europeo denominato Ruminomics, il cui sottotitolo “Connecting the animal genome, gastrointestinal microbiomes and nutrition to improve digestion efficiency and the environmental impacts of ruminant livestock production” è esplicativo del suo ambizioso obiettivo.

Il team di ricercatori ha monitorato oltre 1000 vacche in lattazione appartenenti a due razze, Frisona e Rossa Nordica, allevate in 7 diversi allevamenti ripartiti su 4 nazioni (Italia, Inghilterra, Svezia e Finlandia), raccogliendo un’enorme mole di informazioni che ha permesso di studiare la complessa rete di relazioni esistenti tra genetica animale, microbioma ruminale e performance produttive. I risultati ottenuti hanno fornito un contributo significativo per potere passare dalla “semplice” comprensione descrittiva del microbioma ruminale alla possibilità di predire parametri di efficienza produttiva e ambientale sulla base dell’analisi del microbioma ruminale del singolo animale.

Rilevante è stato il contributo apportato dai ricercatori dei dipartimenti DiANA e DiSTAS dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, che hanno monitorato oltre il 40% del totale degli animali reclutati nella ricerca, ripartiti su tre stalle del lodigiano e del piacentino.

Il risultato principale riportato dallo studio risiede nell’identificazione di un piccolo gruppo di microrganismi che rappresentano il “core” del microbioma ruminale, che si mantiene molto conservato nonostante la variabilità delle aree geografiche di provenienza, della razza ed alimentari. Lo studio evidenzia che questi microrganismi mostrano significative stime di ereditarietà, la loro abbondanza è infatti spiegata in misura significativa dalla genetica dell’ospite.

Più in dettaglio, l’analisi tassonomica ha messo in evidenza un nucleo di microrganismi ruminali costituito da 512 Operational Taxonomic Units (OTU) a livello di specie microbiche (454 procarioti, 12 protozoi e 46 funghi) presenti in almeno il 50% degli animali in ciascuna delle sette aziende studiate. Il gruppo principale è stato condiviso tra le razze da latte Holstein e Nordic Red. I risultati confermano, questa volta su larga scala, quanto evidenziato da lavori precedenti e cioè che questa comunità microbica è rappresentativa dei ruminanti in generale, specialmente per quanto riguarda le specie batteriche e protozoarie.

È inoltre di notevole rilievo il fatto che il numero di OTU microbiche ereditarie a livello di specie ritrovate in questo studio sia di circa 10 volte superiore a quelle riscontate in un analogo studio condotto sull’uomo, perché conferma ulteriormente l’interazione profonda tra l’ospite bovino e il suo microbioma ruminale. Ciò presumibilmente riflette la maggiore dipendenza del bovino dal suo microbioma digestivo rispetto a quanto avviene nell’uomo per il microbioma intestinale.

Per un numero elevato di componenti del microbioma ruminale sono state inoltre messe in luce associazioni significative con caratteristiche come la concentrazione ruminale di acetato e propionato, ma un numero più contenuto di essi è risultato correlato a parametri produttivi importanti, quali la produzione di latte e l’emissione di metano.

Applicando diversi algoritmi di machine learning per prevedere le relazioni tra alimentazione, metabolismo del rumine e caratteristiche dell’ospite, sulla base della composizione del core microbico, hanno consentito di evidenziare come questo sia altamente esplicativo di alcuni metaboliti del rumine. Per il propionato ad esempio, almeno in alcune stalle, si è misurato un valore di r2 pari a circa 0,9. Anche le emissioni di metano possono essere significativamente predette sulla base della composizione del microbioma ruminale, con valori di r2 che raggiungono 0,4 in diversi allevamenti. Inoltre, sebbene con una minore capacità predittiva, molti tratti fenotipici dell’ospite, compresi alcuni parametri ematici e di composizione del latte, potrebbero essere spiegati dalla composizione di questo core microbico. Nel complesso, i risultati ottenuti mostrano anche che questo core microbico ha una capacità predittiva superiore rispetto al genotipo degli animali ospiti.

Al di là del contributo scientifico apportato al miglioramento delle conoscenze sulle complesse relazioni tra genetica dell’animale ospite e del microbioma digestivo, vale la pena di chiedersi quali possano essere le ricadute applicative, sia pure non immediate. Secondo il dott. Paolo Bani, che ha coordinato l’attività svolta in campo dal team piacentino, l’avere dimostrato che un piccolo numero di microrganismi ereditari determinati dall’ospite dà un contributo rilevante alla spiegazione delle variabili sperimentali e dei fenotipi dell’ospite apre la strada alla possibilità di intraprendere programmi di selezione genetica basati sul microbioma per fornire una soluzione sostenibile all’aumento dell’efficienza e alla riduzione delle emissioni dei ruminanti. Una seconda, e forse più immediata applicazione di tali risultati, consiste nella possibilità di modificare la colonizzazione del tratto digestivo nelle prime fasi di vita inoculando specie che hanno dimostrato di svolgere un ruolo chiave e positivo nei confronti dell’efficienza alimentare e della correlata riduzione dell’impatto ambientale degli allevamenti.

Per saperne di più sulla ricerca clicca qui: “A heritable subset of the core rumen microbiome dictates dairy cow productivity and emissions”

 

Autori: Paolo Bani e Erminio Trevisi, Dipartimento di Scienze animali, della nutrizione e degli alimenti (DiANA) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza.

 

DOI 10.17432/RMT.2019-2901