In molti ambiti non legati alla produzione di alimenti gli aminoacidi a catena ramificata isoleucina, leucina e valina (BCAA) vengono utilizzati comunemente per la loro attività che viene considerata quasi nutraceutica. Caso emblematico è quello dei culturisti o di chiunque voglia aumentare la propria massa muscolare.
Anche nei puledri in crescita o nei cavalli dopo lunghi periodi di riposo, l’uso degli aminoacidi a catena ramificata rappresenta un sistema semplice ed efficiente per migliorare l’incremento ponderale nel primo caso, o ricostituire tessuto muscolare nel secondo.
Nella proteina del latte rappresentano circa il 21% delle proteine totali, mentre nella proteina metabolizzabile microbica gli aminoacidi a catena ramificata sono invece circa il 16%. Si tratta quindi di una frazione molto importante sia dal punto di vista metabolico che del prodotto finale del processo, che in questo caso è il latte.Circa quaranta anni fa, nel nostro settore venne utilizzato per qualche anno un prodotto commerciale a base di sali di acidi grassi a catena ramificata, volgarmente denominati isoacidi. Questi erano l’acido 2-metiltiobutirrico, isobutirrico e isovalerico (BCVFA), normalmente presenti nel rumine in equilibrio labile con i corrispondenti BCAA, con l’aggiunta di acido isovalerico.
I risultati effettivamente furono incoraggianti e la produzione di latte aumentava, ma purtroppo questo prodotto aveva alcune limitazioni legate fondamentalmente all’odore acre e alla limitata palatabilità, che ne limitarono la diffusione.
Nella Cornell Nutrition Conference tenutasi quest’autunno, ben due review sono state dedicate agli acidi volatili a catena ramificata (BCVFA) e agli aminoacidi che ne derivano (BCAA) per verificare lo stato dell’arte dopo quaranta anni di studi di ecologia ruminale e con la nuova arma della genomica, utile a chiarire ancor meglio i concetti. Per prima cosa è bene ricordare che i BCVFA sono trasformati in BCAA per formare la proteina batterica dei batteri metanigeni cellulosolitici che hanno perso degli enzimi chiave necessari a sintetizzare questi ultimi, e quindi il dato costante è che migliorano la produzione di proteina batterica e la DNDF.
Inoltre, i BCVFA, una volta elongati, si trasformano in acidi crassi a catena ramificata (BCFA) che entrano nella costituzione dei fosfolipidi a doppio strato della parete cellulare batterica. I BCFA contribuiscono inoltre alla formazione dei plasmalogeni, veri e propri spazzini dei radicali liberi a livello di membrana cellulare.
Per capire meglio l’importanza dei BCVFA nell’ecologia ruminale bisogna puntualizzare tre concetti fondamentali: il commensalismo, ovvero la capacità dei batteri di nutrirsi con più o meno efficienza sul medesimo substrato; il mutualismo (cross feeding), ovvero la capacità di ogni specie batterica vivente nel rumine di fornire con la sua attività fermentativa substrati che altri batteri non sono in grado di sintetizzare ma che sono indispensabili per la loro crescita; e l’amensalismo, cioè l’inibizione della crescita di una specie dovuta ai prodotti metabolici di un’altra. Il primo esempio di commensalismo a livello ruminale che trattiamo parlando di BCVFA è tra i cellulosolitici e il Treponema: entrambi infatti utilizzano i BCVFA per la loro crescita. Un esempio di amensalismo è invece quello che avviene tra i cellulosolitici e la Prevotella, un batterio amilolitico che non ha bisogno dei BCVFA per sintetizzare i BCAA, ma li ricarbossila creando BCAA e sottraendo ai cellulosolitici un substrato necessario per la loro crescita. Questa osservazione avvalora il fatto che nelle razioni ricche di amido tenda a diminuire la digeribilità della fibra.
Fin dagli anni ’80, come sopra detto, si sono notati effetti positivi sulla produzione di latte con la somministrazione di BCVFA, ma non era affatto chiaro il meccanismo che li regolava.
Per migliorarne la comprensione bisogna partire da un presupposto che riguarda la proteina digeribile ruminale (RDP) vera. Si è visto infatti che è questo parametro a limitare la crescita dei cellulosolitici: in carenza di questa, i primi ad utilizzarla sono i batteri FC, che fermentano i carboidrati semplici, mentre a farne le spese sono i batteri NFC, ovvero quelli che fermentano la fibra.
L’interpretazione più corretta riguardante l’utilità dei BCVFA è che questi isoacidi possano stimolare l’efficienza della sintesi proteica microbica in carenza di RDP, fornendo ai cellulosolitici gli scheletri carboniosi trasformabili in BCAA.
Nel grafico qui sopra si nota il miglioramento della produzione di proteina batterica correlato col crescente quantitativo di isoacidi nel flusso ruminale e della concentrazione di azoto ammoniacale.
In sintesi, la ricerca sui BCVFA appare molto promettente per applicazioni di campo che mirano ad obiettivi di maggior efficienza e produttività.
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