L’Embryo Transfer (ET) nasce più di un secolo fa in Gran Bretagna a scopo di ricerca, ma riesce ad affermarsi a livello commerciale nell’industria zootecnica solamente a partire dai primi anni 70. L’iniziale interesse commerciale verso questa tecnica si ebbe in concomitanza con quello dei nuovi continenti alle razze da carne e duplice attitudine europee; l’utilizzo dell’ET permetteva infatti di ridurre tempi e costi di importazione rispetto all’acquisto di animali vivi.

A seguito di questa prima spinta commerciale la tecnica si è sempre più affermata nel campo della riproduzione bovina in quanto, oltre a ridurre problematiche legate al trasporto di animali vivi, permetteva di sfruttare a pieno femmine ad elevato valore genetico o con caratteristiche desiderabili incrementando sensibilmente la loro progenie. A distanza di 50 anni dalla nascita del primo vitello a seguito di ET non chirurgico, la tecnica di recupero e congelamento embrionale è stata sempre più semplificata e resa fruibile in campo. Nella pratica odierna per effettuare le operazioni che vanno dal recupero al congelamento degli embrioni viene impiegata al massimo qualche ora ma, a dispetto di questi enormi miglioramenti tecnologici, poco è invece cambiato negli anni per quanto riguarda l’induzione della superovulazione.

Il protocollo utilizzato per questi trattamenti prevede la somministrazione, per via intramuscolare, di estratti ipofisari contenenti gonadotropine (FSH e LH) a distanza di 12 ore per 4-5 giorni consecutivi. La doppia somministrazione giornaliera ripetuta per più giorni è dovuta all’emivita molto breve dell’ormone, ed obbliga a dover catturare molte volte le donatrici. Ne consegue uno sforzo lavorativo aggiuntivo e in caso di animali particolarmente indocili e nevrili, un aumento dei rischi di infortuni sia per l’animale che per il personale addetto. Inoltre, in questa tipologia di animali lo stress da manipolazioni/contenimento influisce spesso negativamente sulla risposta ovarica compromettendo l’efficienza del trattamento. Ripetute somministrazioni, inoltre amplificano il rischio di errori nel dosaggio e nella tempistica di somministrazione dei protocolli.

A partire dai primi anni ’90, per ovviare a questi inconvenienti, si sono succeduti numerosi studi con l’obiettivo di semplificare il protocollo di superovulazione tradizionale. Recentemente, alcuni studi effettuati nel continente Americano hanno messo in luce la possibilità di utilizzare l’acido ialuronico come solvente a lento rilascio per i prodotti a base di FSH ottenendo, in bovine da carne, risultati soddisfacenti. Nell’ambito del programma europeo IPA Adriatic Cross-border Cooperation Programme 2007–2013, l’Università di Udine ha partecipato come partner al progetto ZOONE (cod. 124) che aveva come capofila la Regione Marche e prevedeva tra gli obiettivi la diffusione della bovina Marchigiana tramite l’embryo transfer. I ricercatori di Udine hanno perciò testato un protocollo di superovulazione basato sull’impiego dell’acido ialuronico come solvente del preparato commerciale impiegato per la superovulazione, da somministrare tramite 2 sole iniezioni a 2 giorni di distanza, rispetto alle 8 iniezioni tradizionali in 4 giorni. I risultati ottenuti impiegando il protocollo a lento rilascio sono stati più che soddisfacenti; infatti la produzione di embrioni è risultata in media più elevata quando le donatrici erano trattate col trattamento a lento rilascio rispetto a quello tradizionale (9,6 vs 6,6 embrioni trasferibili). Inoltre, dallo studio è emerso che gli embrioni prodotti attraverso l’utilizzo di questo nuovo trattamento presentavano caratteristiche di qualità e di sviluppo che li rendevano più idonei a poter essere congelati.

È ipotizzabile che questi miglioramenti possano essere dovuti ad una serie di concause tra cui:

  • concentrazione ematica dell’FSH più stabile per il lento rilascio da parte dell’acido ialuronico;
  • riduzione dello stress causato alle donatrici dalle ripetute manipolazioni e somministrazioni;
  • diminuzione degli errori di dosaggio e tempistica di somministrazione del trattamento.

Ad oggi non sono presenti studi che indichino l’efficacia del trattamento a lento rilascio di FSH in razze da latte e, per quanto sia altamente ipotizzabile una sua efficacia nelle manze, il suo utilizzo in animali in lattazione richiederebbe ulteriori approfondimenti in considerazione dell’elevata clearance ormonale che caratterizza le donatrici ad elevata produzione lattea.

La semplificazione del protocollo di superovulazione rappresenta, negli animali non in lattazione, una semplificazione gestionale ed è in grado di migliorare i risultati ottenibili rispetto alla tecnica tradizionale. Il protocollo a lento rilascio tuttavia non è in grado di eliminare “l’effetto donatrice”, cioè il fatto che a tutt’oggi un terzo delle bovine sottoposte a superovulazione non produce alcun embrione, un altro terzo produce da 1 a 3 embrioni e solo il terzo restante produce un significativo numero di embrioni (da 4 a 50). La variabilità nella risposta superovulatoria rimane quindi uno scoglio che necessita di essere superato per poter sfruttare a pieno le enormi opportunità che questa tecnica offre. A tal proposito da alcuni anni diversi gruppi di ricerca stanno lavorando per trovare degli indicatori capaci di individuare a priori le “buone” e le “cattive” donatrici. Evidenze derivate anche dall’ambito medico suggeriscono infatti che le femmine di mammifero sarebbero dotate di un patrimonio di follicoli ovarici molto variabile. Tecniche ecografiche di conta dei follicoli antrali (AFC) e la misurazione della concentrazione ematica dell’ormone antimülleriano (AMH), che essendo prodotto dalle cellule della granulosa è un indice del numero di follicoli presenti in sede ovarica, hanno suscitato un grande interesse sia a livello accademico che applicativo. É stato infatti dimostrato come animali che presentano bassa AFC e basso AMH producano un numero significativamente più basso di embrioni rispetto ad animali con indici elevati.

L’utilizzo di queste nuove conoscenze permetterebbe quindi di poter selezionare, a parità di interesse genetico o allevatoriale, i soggetti in grado di rispondere meglio alla superovulazione, migliorandone l’efficienza economica. Purtroppo la conta follicolare ecografica è una tecnica laboriosa e che deve essere eseguita nella fase precoce di reclutamento dell’ondata follicolare per essere affidabile; risultando quindi di scarsa applicabilità nella pratica buiatrica. Lo stesso dosaggio dell’AMH è costoso e non ancora completamente validato in campo.

Il progresso delle ricerche in questo ambito permetterà però di risolvere in tempi ragionevoli questi limiti aumentando l’efficienza economica dell’ET, premessa necessaria per aumentarne la diffusione che si è arrestata alla fine degli anni 90. La riduzione dei costi di produzione degli embrioni è il prerequisito necessario all’impiego dell’ET come terapia della ipofertilità bovina. La così detta “Embryo terapia”, ovvero l’utilizzo del trapianto embrionale o su bovine repeat breeder o durante i periodi di stress da caldo, permette di incrementare i tassi di concepimento e di gravidanza. La possibilità di trasferire su questi animali, e laddove sia possibile anche su animali a basso valore genetico, embrioni puri, meticci o di razze da carne potrebbe rappresentare, attraverso lo sfruttamento aziendale o la vendita di vitelli ad elevato valore commerciale, una nuova frontiera per l’utilizzo dell’ET. Semplificazione dei protocolli, selezione delle migliori donatrici, Embryo Terapia e utilizzo di embrioni di razze da carne su bovine da latte non destinate a generare rimonta, sembrano destinati a dare nuova linfa ad una tecnica che già ha dimostrato a pieno negli anni la sua efficienza nell’ambito della selezione genetica, rendendola sempre più interessante e fruibile in realtà allevatoriali molto diverse tra loro. Grazie a questi nuovi campi d’applicazione, alla possibilità di utilizzo del seme sessato e alla produzione di embrioni in vitro, l’ET sembra destinato a diventare nel futuro prossimo una pratica routinaria in molti allevamenti, in grado di implementare sotto vari aspetti la redditività del settore.

Autori: Tatiana Sbaragli, Andrea Biancucci e Giuseppe Stradaioli

Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali Università degli Studi di Udine