Lo abbiamo chiesto  al  Prof. Antonio Gallo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza.

Il ruolo negativo delle micotossine sulla salute dei ruminanti è tuttora controverso e questo porta inevitabilmente o a sottovalutarne o sopravvalutarne l’importanza.

Gli allevamenti di bovine da latte, soprattutto a fine estate ed inizio autunno, hanno spesso problemi di produzione di latte, di fertilità e zoppie e questo momento “frustrante” spesso coincide anche con l’inserimento in razione dei fieni, degli insilati e dei concentrati “nuovi”. Anche durante l’anno ci possono essere comunque momenti negativi difficili da spiegare. Come causa o concausa, o “capro espiatorio”, le micotossine vengono comunque inserite nella lista dei sospetti.

Gli allevatori attenti fanno le analisi sia dei nutrienti che delle micotossine degli alimenti ma spesso succede che siano in difficoltà nel dare un giudizio sulla quantità di micotossine riscontrate e sulla loro eventuale pericolosità.

Quali sono le micotossine da tenere sotto controllo nell’allevamento dei ruminanti?

Le autorità predisposte, sia europee che nazionali, hanno emanato nel corso degli anni normative/direttive/raccomandazioni su specifiche tipologie di micotossine. In modo particolare, le micotossine “normate” o comunque di cui si hanno informazioni riguardo la loro diffusione negli alimenti e dei livelli ai quali possono provocare dei problemi sono le aflatossine, i tricoteceni di tipo A (come tossine T-2 e HT-2) e di tipo B (come deossinivalenolo, detta anche DON o vomitossina), le fumonisine, lo zearalenone (detto anche ZEA), gli alcaloidi dell’ergot, l’ocratossina A, la patulina, e, recentemente, le sterigmatocistine.

Sicuramente ai più è noto il problema delle aflatossine. Questa famiglia di micotossine, caratterizzata dall’essere la sostanza di origine naturale a più alta cancerogenicità, viene normata a livello comunitario. Infatti, l’ingestione di partite contaminate da aflatossine, in modo particolare AFB1, da parte di animali in lattazione, causerà la comparsa di un metabolita, la AFM1 nel latte che verrà destinato al consumo diretto o alla trasformazione in prodotti lattiero-caseari. La normativa europea cerca perciò di fornire limiti di contaminazione negli alimenti che tutelino più il consumatore finale che le performance e lo stato sanitario degli animali da reddito. In particolare, per questi ultimi, i livelli di ingestione di queste micotossine, così come imposti dalla normativa vigente, appaiono essere molto bassi per causare problemi reali sugli animali.

Per quanto riguarda le altre micotossine per cui esiste una sorta di regolamentazione e/o raccomandazione a livello comunitario o nazionale, il discorso è completamente diverso. Infatti, il tasso di passaggio delle micotossine o dei loro metaboliti dagli alimenti contaminati al latte è veramente basso, quasi nullo. In questo caso perciò i limiti di contaminazione sono molto più alti e non sempre in grado di salvaguardare la salute degli animali. La mia opinione è che gli allevatori e i tecnici di stalla debbano porre attenzione non solo alle aflatossine, ma anche a DON, fumonisine, ZEA e tossine T-2 e HT-2, perché anche se gli alimenti sono contaminati sotto i limiti di legge, possono causare problemi sugli animali con peggioramento dello stato sanitario e riduzioni delle performance produttive e riproduttive.

Non per aggravare il già angusto problema con cui hanno a che fare gli allevatori, ma una serie di altre micotossine che possono contaminare gli alimenti, e per le quali non è prevista alcuna normativa e/o raccomandazione, sono le micotossine “emergenti”. Queste micotossine possono essere trovate non solo nelle materie prime, ma anche nei foraggi insilati, fasciati o affienati. L’attività di ricerca del nostro gruppo sta facendo molto negli ultimi anni per capire i rischi dovuti alla contaminazione dei foraggi dalle micotossine “emergenti”, ma in questo caso abbiamo ancora molto da fare e capire.

Spesso nei certificati analitici le concentrazioni delle singole micotossine sono indicate con scale differenti come µg/kg, mg/kg, ppm, etc. Scale che spesso cambiano da un laboratorio all’altro. Come ci si deve comportare per memorizzare facilmente queste informazioni? Lo stesso si può dire per i livelli di guardia e di normalità, a volte espressi sul secco o sul tal quale, oppure come quantità di peso corporeo: un vero ginepraio. Lei professore cosa ci consiglia di fare?

Riguardo i diversi modi di esprimere le concentrazioni di queste micotossine degli alimenti, vorrei dapprima chiarire alcuni termini chimici:

  • ppm significa “parti per milione” ed equivale a “mg/kg”,
  • ppb significa “parti per bilione” ed equivale a “µg/kg”,
  • ppt infine significa “parti per trilione” ed equivale a “ng/kg”.

Per aiutare i miei studenti a capire di che quantità stiamo parlando, e sperando che questo serva a ricordare la differenza fra queste concentrazioni, sono solito fare un parallelismo con una scala temporale. Mi spiego meglio: se dovessimo quantificare una micotossina concentrata al valore di 1 mg/kg, su scala temporale significherebbe misurare una durata di 2 mesi e mezzo in un secolo. Se la micotossina fosse concentrata a 1 µg/kg, la quantità temporale da misurare sono 3 secondi in un secolo. Infine, 1 ng/kg corrisponde a 3 millesimi di secondo in un secolo, perciò una quantità molto bassa che le moderne strumentazioni di laboratorio sono in grado di quantificare.

Ad ogni modo, quando si parla di micotossine normate, i livelli di riferimento riguardo la contaminazione degli alimenti dovrebbero essere:

  • 1 mg/kg o 1 ppm per micotossine come DON, ZEA, fumonisine e anche tricoteceni tipo A,
  • 1 µg/kg o 1 ppb per le aflatossine negli alimenti e nei mangimi,
  • 1 ng/kg o 1 ppt per l’aflatossina M1 nel latte.

Infine, la normativa non specifica che le concentrazioni debbano essere espresse su sostanza secca, perciò solitamente vanno riferite al “tal quale” degli alimenti, cioè compreso il contenuto in acqua. L’espressione della concentrazione delle micotossine su sostanza secca è più una peculiarità di chi si occupa di vacche da latte alimentate con insilati (30-35% di sostanza secca) e con razioni ad alto contenuto di acqua (es: 50-80% di sostanza secca). Ovviamente, l’esigenza di esprimere la concentrazione su sostanza secca per meglio equiparare matrici ad umidità diversa si estende anche ai diversi sottoprodotti umidi.

Per le micotossine che ci ha consigliato di tenere sotto osservazione, ci può dire quali sono i livelli di guardia per i singoli alimenti e per l’intera razione?

In una precedente pubblicazione fatta su una rivista di settore (Gallo et al., 2011. Alimentazione e micotossine: il punto su cosa sappiamo. L’Informatore Agrario, 17: 74-78.), avevamo fornito dei livelli indicativi che potessero essere usati da allevatori e tecnici per definire le contaminazioni «problematiche» per le principali classi di micotossine normate. Tali valori derivavano da un’analisi molto ampia della bibliografia scientifica e divulgativa d’oltreoceano fatta allora e che aveva come tema l’effetto delle micotossine sui ruminanti. Per allineare i diversi sistemi produttivi, i valori facevano riferimento alla totale diete assunta dagli animali produttivi (vacche da latte) ed erano espressi sulla sostanza secca, per equiparare le diverse tipologia di dieta: secca, poco umida o umida. Di seguito riporto la tabella che era stata pubblicata allora e che ritengo ancora valida.

Anzi, per alcune micotossine prodotte da Fusarium spp., come DON e fumonisine, ahimè questi valori andrebbero rivisti al ribasso, come evidenziato in recenti prove svolte presso il nostro dipartimento. In particolare, i limiti riportati in tabella sono stati definiti per categorie generiche di animali. Animali giovani o vacche altamente produttive o in periodi più “delicati”, come durante la transizione, posso mostrare effetti dovuti all’ingestione di micotossine a livelli più bassi rispetto ad altre tipologie di animali.

Il controllo continuo dell’aflatossina M1 del latte ci permette indirettamente di tenere sotto controllo la concentrazione di aflatossina B1 (AFB1) negli alimenti. Ci può insegnare un metodo semplice per mettere in relazione la concentrazione di AFB1 nei singoli alimenti e nella razione giornaliera con la AFM1 del latte?

Si può fare un calcolo molto semplice che si basa sulla conoscenza della contaminazione degli alimenti o della dieta che l’animale sta ingerendo. Ad esempio, se abbiamo una farina di mais contaminata a 10 µg/kg (o anche ppb; ora ricordiamoci che questa è l’unità di misura corretta per le aflatossine negli alimenti) e l’animale ingerisce 5 kg/capo/giorno di questo ingrediente, la sua ingestione giornaliera sarà di 50 µg di AFB1/capo/giorno.

Basta applicare una semplice e facilmente memorizzabile equazione proposta da ricercatori Olandesi 20 anni fa (Veldman et al., 1991) per trovare la contaminazione del latte. In particolare, e nell’ottica di semplificare, bisogna moltiplicare il livello di ingestione giornaliera di AFB1 (come dicevamo 50 µg di AFB1/capo giorno) x il fattore 1.2 e poi aggiungere 2. Questo ci permetterà di trovare la probabile contaminazione del latte da AFM1, espressa però in ng/kg o ppt.

Il calcolo da fare è:

AFM1 (ng/kg o ppt) = 1.2 x 50 µg di AFB1/capo giorno + 1.2 = 62 ng/kg.

In questo caso, nonostante la partita di mais sia commercializzabile, il latte non potrebbe essere commercializzato perché superiore al limite di legge.

In caso di alimenti contaminati da livelli elevati di micotossine, l’aggiunta di “catturanti” o binders ci può realmente aiutare?

Di questo ne sono certo, ma bisogna differenziare fra micotossine. È noto come diversi prodotti commerciali a base di argille o altri alluminosilicati risultino efficienti nel sequestrare, e non far assorbire dall’animale, le aflatossine, con riduzione dell’escrezione di AFM1 nel latte.

La situazione è più complicata invece per le altre micotossine, in primis DON, ZEA e fumonisine. In questo caso e data la struttura delle molecole, più grande rispetto alle aflatossine, le argille risultano per lo più inefficienti nel sequestro. Commercialmente vi sono altre tipologie di prodotto che, oltre ad attuare un sequestro, bio-trasformano o distruggono la molecola di queste micotossine tipiche di Fusarium spp. per ridurne le potenzialità tossiche e cancerogene per l’animale e l’assorbimento nel tratto gastro-intestinale. In un nostro recente lavoro, pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of Dairy Science (Gallo et al., 2020, in press), abbiamo dimostrato come la somministrazione di diete contaminate da 1.1 mg/kg ss di DON e 1.2 mg/kg ss di fumonisine (FB1+FB2) abbia comportato la perdita di quasi 1.5 kg di latte/capo/giorno rispetto a diete controllo meno contaminate (0.4 mg/kg ss di DON e 0.1 mg/kg ss di fumonisine). Oltre alle perdite produttive, abbiamo misurato una ridotta digeribilità delle diete (-5.2% nella digeribilità della ss e -18% nella digeribilità della NDF, la parte di fibra della razione), una peggiore funzionalità ruminale (transaminasi più alte) e un peggioramento della qualità nel latte, soprattutto legata a peggiori parametri di caseificabilità. L’aggiunta di un prodotto commerciale e registrato, specificamente designato per salvaguardare gli animali sia dalle aflatossine che dalle Fusarium-tossine, ha migliorato la situazione riportando i valori a condizioni normali misurate con la dieta poco contaminata, anche se gli effetti migliorativi sulla produzione di latte sono stati più contenuti. In definitiva, la contaminazione da DON, ZEA e fumonisine, che spesso si associa ai foraggi e non esclusivamente alle materie prime e ai mangimi, è una condizione da monitorare costantemente per evitare di avere perdite economiche importanti in allevamento.