Si dice che chi non ha memoria non ha futuro. Erano ormai molti anni che si aveva il sospetto che in autunno non si facesse quel latte che si stava facendo in primavera a parità di giorni di lattazione, e che le gravidanze tardassero a venire. Tutto questo nonostante estati, come quella del 2014, non così calde e comunque finite. Tale constatazione confinata solo all’interno del proprio allevamento e senza uno scambio di opinioni tra allevatori comportava, e ancora comporta, scelte anche avventate nel concentrare la razione o nel mettere in discussione i fornitori, i veterinari e i nutrizionisti di turno. Analizzando con accuratezza sia i dati italiani che quelli degli allevamenti europei e nord-americani ci siamo accorti che il problema è globale, ricorrente negli anni e ben lontano dall’essere stato risolto. Traducendo in numeri ed in osservazioni succede questo. A fine inverno ed in primavera buona parte degli allevamenti ben condotti hanno produzioni elevatissime nonostante aumenti progressivamente la percentuale di vacche gravide e i giorni di lattazione aumentino mese dopo mese almeno fino a fine estate e inizio autunno dove si concentrano i parti. Una lettura superficiale degli eventi porta gli allevatori ed i loro tecnici a ritenere di aver trovato finalmente in primavera le migliori soluzioni per l’allevamento. Con l’inizio dell’estate si tollera un certo calo di produzione e di titoli del latte ma per lo più viene classificato “normale” e non così grave anche perché ormai moltissimi allevamenti si sono dotati di sistemi di climatizzazione. Si considera anche normale, anche se ciò non lo è, che il tasso di concepimento scenda repentinamente in estate. Generalmente da fine settembre la temperatura scende e i giorni di lattazione si abbassano ma la produzione non aumenta come non vanno bene le diagnosi di gravidanza. Per tornare alla normalità produttiva e riproduttiva bisogna aspettare l’inverno. Lo studio attento di questo fenomeno e i numerosi fattori genetici, ambientali, manageriali, nutrizionali e sanitari che lo determinano ci hanno portato a classificarlo come patologia pluri-fattoriale e quindi come “sindrome della bassa produzione di latte in autunno” ( SBPLA). Inquadrandola in questo modo è stato più facile schematizzarne i fattori eziologici e di rischio e quindi anche individuare le azioni da adottare per prevenirla o meglio per mitigarne gli effetti negativi sulle performance e la redditività degli allevamenti. Ma perché affrontare ora in primavera un problema che si presenta in autunno? La risposta è semplice perché tale sindrome non ha una terapia cioè, qualsiasi intervento sulla produzione e sulla fertilità che si fa in autunno non dà alcun risultato se non quello di causare maggiori costi di produzione, acidosi ruminale e picchi di prevalenza delle laminiti. Per ottenere buoni risultati si deve intervenire già ora sull’ambiente, sul management, sulla nutrizione e sulla sanità. Questo editoriale è anche uno stimolo alla comunità scientifica italiana nell’individuare attraverso la ricerca scientifica quei fattori causali e di rischio di questa patologia che oggi non ci sono ancora completamente noti.
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