Alcuni autori americani come Buttler (1996), Rajala-Schultz (2001) e Ferguson (1988 e 1993) introdussero il concetto che una concentrazione eccessiva di azoto ureico nel sangue (PUN) può avere effetti negativi sulla fertilità. Questa porta infatti ad una riduzione del pH uterino, altera la qualità dei follicoli e sottrae energia perché la trasformazione epatica dell’ammonica proveniente dal rumine, nella non tossica urea, è un processo molto impegnativo. Da allora si è posta molta attenzione nel misurare negli allevamenti la concentrazione di urea nel latte di massa, parametro differente dall’azoto ureico spesso citato nella bibliografia. Per convertire l’azoto ureico in urea bisogna moltiplicare il valore per 2.14. In un suo celebre lavoro, Buttler (1998) dimostrò la correlazione tra PUN e pH uterino.

Nel caso paradossale, e solo sperimentale, di una concentrazione di PUN uguale a 0 il pH uterino è di circa 7.20. Con una PUN di 17.5 mg/dl, ossia di 37.5 mg/dl d’urea, il pH uterino scende al di sotto del 7.00. Secondo gli autori prima citati, si ha un rischio fertilità quando la PUN è maggiore di 19 mg/dl, ossia con 40.6 mg/dl d’urea plasmatica.

Questo affascinante biomarker fece allora molta breccia nei nutrizionisti e veterinari italiani dal momento che la determinazione dell’urea nel latte è una routinaria e antica determinazione che i caseifici, specialmente dei formaggi a lunga stagionatura, utilizzavano per controllare gli abusi di erba. Una lettura superficiale delle argomentazioni scientifiche che legavano concentrazione di PUN e fertilità portò allora alla facile conclusione che minore è la concentrazione di urea nel latte di massa e migliore è la potenziale fertilità di una mandria. La determinazione di questo parametro sul latte di massa, a causa della fortissima variabilità individuale, dà scarse indicazioni in tal senso. Può essere eventualmente considerata per misurare l’efficienza di utilizzazione dell’azoto della razione, ma comunque con scarsissima attendibilità.

Diverso è il discorso della determinazione individuale dell’urea nel latte nelle bovine nelle prime settimane di lattazione, ossia quando esse devono esprimere quasi contemporaneamente il picco di lattazione e una nuova gravidanza in un periodo di fisiologico bilancio energetico negativo. Il seguire l’urea nel latte di massa per “calibrare” la concentrazione proteica della razione, unitamente al rapido miglioramento genetico nell’attitudine a produrre proteina del latte,  sta creando le condizioni per  pericolose carenze proteiche, o meglio amminoacidiche, nelle vacche così dette fresche. Molti sono i dati a convalidare questo sospetto e molte evidenze sperimentali sono disponibili.

Uno di questi è lo scarto tra il potenziale genetico (genotipo), sia percentuale che in valore assoluto, e quanto viene effettivamente prodotto (fenotipo). Nel 2015, secondo i dati riportati nel Profilo Genetico Allevamento di ANAFI, la differenza tra fenotipo e genotipo per la proteina percentuale del latte e della quantità prodotta è rispettivamente di ben -0.32% e kg – 62. Differenziale in costante aumento negli anni. Due sono gli aspetti inquietanti della fisiologia della vacca da latte ad elevato livello genetico di selezione per i caratteri produttivi come la frisona. Il primo è che la produzione di latte e dei suoi costituenti è un processo metabolico che ha una priorità quasi assoluta, sicuramente rispetto al riprodursi, almeno fino a quando la bovina non è di nuovo gravida. La mammella esercita, rispetto agli altri tessuti, un uptake prioritario di molecole come il glucosio, gli aminoacidi e gli acidi grassi creando di fatto carenze secondarie in altri organi importanti come il fegato, le cellule del sistema immunitario e il follicolo ovarico. Basti pensare che la produzione epatica di IGF-1, il più potente fattore di crescita follicolare e non solo, è condizionata dalla concentrazione ematica degli amminoacidi. Il secondo è che la vacca è un ruminante e come tale utilizza volentieri gli aminoacidi, siano essi derivanti dalla proteina microbica ruminale o presenti negli alimenti che sfuggono alle degradazioni ruminali, per produrre glucosio e quindi energia e lattosio.

Da un’importante elaborazione eseguita dall’Ufficio Studi di AIA emerge un quadro piuttosto preoccupante sul metabolismo proteico della bovina da latte. Seguendo l’andamento del biomarker proteina del latte individuale < 2.90% nelle prime settimane di lattazione, si evidenzia nelle frisone, soggette ai controlli funzionali AIA, che la percentuale di prevalenza è superiore al 30% nella finestra temporale +31+45 giorni di lattazione. In ogni caso, dal 16° al 105° giorno di lattazione, la frequenza di questo fattore di rischio per fertilità e piena efficienza del sistema immunitario e del fegato non scende mai al di sotto del 10% delle bovine, parametro indicativo del fatto che ciò è un problema collettivo. Ciò si verifica nel lungo periodo considerato dall’analisi dei dati, ossia dal 2011 al 2016.

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Relativamente all’andamento dell’urea del latte individuale, le bovine con un valore superiore a 36 mg/dl sono inferiori al 5%. Si va oltre il 5% solo dopo i 120 giorni di lattazione.

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Sono invece più frequenti le bovine con un valore d’urea nel latte < 20 mg/dl. Sempre negli ultimi 6 anni sono ben oltre il 30 % le bovine con questo valore d’urea e per un arco temporale che va dal parto a 120 giorni dopo di esso. Solo nel 2015 e nel 2016 si è ridotta la percentuale di bovine con urea nel latte < 20 mg/dl, probabilmente per una migliore gestione delle diete.

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Altro dato inquietante, e che deve far riflettere, è l’utilizzo delle proteine labili, o meglio degli aminoacidi stoccati nel tessuto muscolare, durante le fasi più negative del bilancio energetico. Secondo uno studio di Komargi e Erdman (1997), durante il periodo che va da 2 settimane prima del parto a 5 settimane dopo, le bovine mobilizzano kg 21 di proteine labili e ciò corrisponde a kg 119 di tessuto muscolare.  La carenza secondaria di alcuni aminoacidi come la metionina è una delle cause più importanti della lipidosi epatica dal momento che questo aminoacido essenziale è coinvolto nella sintesi della carnitina (trasporto degli acidi grassi nel mitocondrio) e della colina, coinvolta nel meccanismo di esportazione dei trigliceridi e del colesterolo dalle cellule epatiche al sangue (VLDL). Inoltre, la metionina condiziona la sintesi del glutatione (GSH) che è forse il più importante antiossidante intracellulare.

Conclusioni

Gli indici di selezione utilizzati sulla frisona, ma non solo, “premiano” molto la proteina del latte. Se i piani alimentari, anche in deroga a quelli che sono i fabbisogni condivisi, non tengono conto di ciò si rischia di causare un grave calo della fertilità e alcune malattie metaboliche gravi, come lipidosi epatica e chetosi metabolica, e una non piena efficienza del sistema immunitario. Al fine di predisporre diete più corrette, soprattutto per bovine in lattazione non gravide, è utile, se non indispensabile, quantificare mensilmente attraverso i controlli funzionali, utilizzando il Sintetico Collettivo di AIA, quante solo le bovine con una proteina del latte < 2.90%, quante quelle con un urea < 20 mg/dl e quante quelle con urea > 36 mg/dl. Se le prevalenze sono maggiori del 10-15 % è necessario adeguare i piani alimentari, altrimenti è utile intervenire sulle singole bovine con gli strumenti offerti dalla clinica d’allevamento e dalla nutrizione clinica.