La delegittimazione degli allevamenti sta lentamente ma inesorabilmente dando i suoi frutti. Ritornati alla normalità del post COVID è ripreso il calo dei consumi del latte e della carne, e quello che è ancora più grave è l’indifferenza generale. E’ evidente che sta vincendo a mani basse il cibo ultra processato, sicuramente più remunerativo del cibo naturale. I giganti del cibo hanno risorse e capacità di “convincimento” sicuramente superiori all’agricoltura.
I ruminanti, come i bovini, i bufalini e gli ovicaprini, hanno una peculiarità ecologica senza paragoni, ossia quella di poter trasformare in latte e carne alimenti che l’uomo non può digerire, come l’azoto non proteico e le fibre, e liberare in atmosfera una quantità di gas climalteranti modesta se comparata a quella derivante dai combustibili fossili utilizzati per produrre energia per l’industria, la mobilità e molte delle altre attività umane. Secondo i dati ISPRA (2021), in Italia l’agricoltura produce il 7,8% del totale di gas serra. Di questa percentale, il 75% deriva dagli allevamenti (5,8% del totale). Di questo 75%, i ruminanti “pesano” per il 78% e quindi sono il 4,8% del totale generale.
L’azoto non proteico (NPN)
Quando si parla di azoto non proteico s’intende quello non presente negli amminoacidi, o meglio nella proteina vera, come l’ammoniaca. Il CNCPS classifica l’azoto in cinque frazioni in base alla solubilità e alla degradabilità ruminale: la frazione A è NPN, la frazione B è la vera proteina e la C è la proteina non disponibile. La frazione B è ulteriormente suddivisa in 3 frazioni (B1, B2 e B3) dotate di velocità di digestione diverse. La frazione B1 è solubile in tampone fosfato borato e viene precipitata dal TCA. La frazione B3 è insolubile in detergente neutro ma è solubile in detergente acido. La frazione C è insolubile nella soluzione detergente acida. La frazione B2 si calcola invece per differenza.
Le frazioni B vengono degradate in base alla competizione tra tassi frazionari di degradazione e di transito. Si assume che la frazione A sia completamente degradata, mentre la frazione C si assume completamente non degradata. Si presume che la digeribilità intestinale sia del 100% per B1 e B2, dell’80% per B3 e dello 0% per C. Anche l’efficienza della conversione dell’azoto introdotto con la dieta giornaliera è nei ruminanti molto bassa (30-35%) rispetto ai monogastrici, ma dà loro la possibilità di convertire l’azoto non proteico contenuto negli alimenti in proteine di alto valore biologico come quelle del latte e della carne.
Se prendiamo alimenti di largo impiego nell’alimentazione della bovina da latte e valutiamo la loro concentrazione di NPN, ossia la frazione A delle proteine, possono scaturire considerazioni interessanti. Secondo la tabella 19-1 del NASEM 2021 relativa alla composizione dei principali alimenti zootecnici, il contenuto di NPN dell’insilato di mais è del 49%, quello dell’insilato di triticale del 56%, dei semi di cotone del 45%, della soia decorticata del 18% e del girasole decorticato del 42%. Tutti i valori sono espressi come percentuale della proteina grezza (CP) dell’alimento. Se non ci sono specifici divieti di disciplinari di produzione è consigliabile inserire l’urea (diammide dell’acido carbonico) nelle diete dei ruminanti come fonte supplementare di azoto non proteico.
L’ammoniaca derivante dalla degradazione delle proteine microbiche ruminali è assorbita dall’intestino e, attraverso la vena porta, arriva al fegato dove viene neutralizzata (detossificazione) in urea. L’urea può anche derivare dal catabolismo degli amminoacidi. Nelle bovine da latte il 60-85% dell’azoto digerito è convertito in urea nel fegato. L’urea, principalmente attraverso la saliva, torna nel rumine dove, attraverso le ureasi batteriche, viene di nuovo trasformata in ammoniaca, ed è quindi disponibile per la crescita del microbiota ruminale. Si stima che dal 15 al 30 % di azoto microbico derivi dall’azoto ureico plasmatico (BUN).
La fibra
Quando parliamo di fibra intendiamo la NDF, ossia la fibra al detergente neutro. A livello biologico questo analita corrisponde alla parete delle cellule vegetali e per semplificazione viene suddivisa in emicellulosa, cellulosa e lignina. Tolta quest’ultima frazione, che solo le termiti riescono a digerire, le cellulose forniscono ai ruminanti un importante substrato nutritivo per la flora batterica cellulosolitica o fibrolitica ruminale. Le pareti cellulari dei vegetali non sono invece digeribili per i monogastrici ed entrano nelle diete solo in virtù dell’azione meccanica che esercitano nel tratto gastro-intestinale.
Un discorso a parte andrebbe fatto per le pectine. C’è da precisare che per stimare quale sia il tasso di crescita della flora fibrolitica per unità di NDF sono necessarie altre informazioni. Peter Van Soest nel 1967 presentò un nuovo modo di valutare la qualità della fibra a seconda della sua solubilità o insolubilità a determinati detergenti. Nacque pertanto la frazione NDF, ossia la fibra neutro detersa, l’ADF, ossia la fibra acido detersa, e l’ADL, ossia la lignina acido detersa. Questo consentì di studiare più attentamente alcuni fabbisogni che, prima delle sue ricerche, erano stati solo intuiti. Avendo a disposizione, grazie alle analisi degli alimenti, questi tre referti di laboratorio, si può matematicamente quantificare l’emicellulosa, la cellulosa e la lignina di un alimento. Sottraendo la ADF alla NDF si ottiene la percentuale di emicellulosa e per stimare la cellulosa basta sottrarre all’ADF la lignina, ossia l’ADL. Alimenti a parità di NDF si potevano pertanto distinguere per differenti digeribilità.
Da molto tempo si sa che la percentuale di NDF di una dieta per bovine da latte ne condiziona l’ingestione, che è il primo aspetto della nutrizione che si considera. Le frazioni della fibra proposte da Van Soest e il peNDF di Mertens non erano però sufficienti a “capire” la differente qualità delle frazioni fibrose di un alimento, il loro comportamento ruminale e la loro capacità di essere un valido nutriente per il microbioma ruminale, e quindi per produrre la massima quantità possibile di proteina metabolizzabile ruminale. Per meglio descrivere la quantità e la qualità dell’NDF di un alimento ora viene utilizzato l’aNDFom che, rispetto all’NDF, non ha alcuna frazione dell’amido ed è privo di ceneri. Può succedere che l’aNDFom sia inferiore di diversi punti percentuali rispetto all’NDF, e ciò è perfettamente plausibile. La ricerca si è quindi ulteriormente evoluta definendo meglio il concetto di iNDF, ossia quella quota di fibra in nessun modo utilizzabile dalla bovina da latte.
L’iNDF, o meglio la quota indigeribile dell’NDF, non è un parametro analizzabile mentre l’uNDF lo è. E’ questa la sola differenza tra questi due parametri. I laboratori meglio organizzati per le analisi degli alimenti zootecnici sono in grado di analizzare l’uNDFom a vari step d’incubazione nel rumine, ossia a 30 a 120 e 240 ore. Pertanto, per confrontare l’uNDFom dei vari alimenti è necessario sapere a quante ore si fa riferimento. Sottraendo l’uNDFom all’aNDFom si ottiene l’NDFD, anch’esso calcolato ed espresso a 30, 120 e 240 ore.
Oggi, grazie alla tecnologia NIR che è veloce, potenzialmente affidabile e più economica, è possibile quantificare routinariamente anche questi nuovi aspetti di determinazione della fibra insolubile. L’uNDF non è necessariamente un nutriente “negativo”, dal momento che aiuta ad avere una ruminazione salutare, ossia di lunga durata e con una notevole produzione di saliva. Come migliorare la digeribilità della fibra, e quindi il tasso di crescita del microbiota ruminale e la produzione dei corrispondenti acidi grassi volatili, è un argomento complesso ma anche molto pratico.
Le scelte agronomiche
Fare un piano agronomico per terreni destinati alla produzione di alimenti per ruminanti oggi non può non tenere conto delle risorse idriche disponibili, oltre ovviamente al tipo di terreno da utilizzare. Ovvio è che da prediligere sono le essenze botaniche a maggiore concentrazione di emicellulose per non dover ricorrere ai sicuramente più costosi concentrati fibrosi come i cruscami, le buccette di soia e le polpe di barbabietola, anche se una loro presenza nella razione, specialmente nei ruminanti da latte, ha una sua funzione perché mantiene attiva e vitale tutta quella parte del microbiota ruminale che fermenta le fibre.
Nell’ambito della singola specie esistono poi cultivar con una digeribilità della fibra più elevata di altre. Spesso l’utilizzo come criterio per la scelta di un’essenza botanica da coltivare della produzione per ettaro di massa foraggera inganna, dimenticando che dalla lignina i ruminanti non riescono a trarre latte e carne mentre dalla fibra digeribile sì. Consultando con attenzione i cataloghi delle varie aziende sementiere e affidandosi ad agronomi specializzati, la stesura di un piano agronomico può fare la differenza in allevamento.
L’epoca di raccolta e le modalità di conservazione dei foraggi
E’ noto da tempo immemore che il foraggio raccolto giovane ha una migliore resa a latte e carne perché, a livello analitico, ha un NDF più basso soprattutto per un minore contenuto di lignina. Se gli eventuali disciplinari di produzione lo consentono, o non ci sono particolari opinioni ostative, la conservazione per insilamento è quella che dà foraggi con la migliore digeribilità, anche se rispetto ad una fienagione tradizionale o l’essiccazione artificiale si perde quasi completamente il contenuto di zuccheri. E’ grazie alla fermentazione anaerobica degli zuccheri che i lattobacilli naturalmente presenti sulle piante producono acido lattico che è fondamentale per la riuscita di un insilato e per la sua stabilità nel tempo.
Gli additivi
Tra gli additivi di comprovata efficacia, ossia sottoposti al giudizio sperimentale della comunità scientifica con esito positivo, si distingue sicuramente l’urea. Derivante dalla sintesi di ammoniaca e acido carbonico è un’ottima fonte di azoto non proteico. L’urea ha una concentrazione della frazione A delle proteine del 100% e una concentrazione proteica del 281%. I batteri cellulosolitici per la loro crescita necessitano quasi esclusivamente di azoto non proteico, e questo aiuta indirettamente a migliorare la degradabilità ruminale delle fibre e quindi a incrementare la proteina metabolizzabile di origine microbica e gli acidi grassi volatili. Anche se non c’è ancora un “ufficiale” fabbisogno di proteina solubile nelle razioni per bovine da latte, si consiglia di raggiungere il 5% della proteina grezza della razione proprio per migliorare il tasso di crescita di questi batteri. Un’altra classe di additivi utili a questo scopo sono gli enzimi cellulosolitici generalmente apportati tramite il terreno di coltura dell’Aspergillus oryzae che li produce se opportunamente coltivato.
Gli altri nutrienti
La digeribilità della fibra e alte concentrazioni di amido della razione sono in conflitto perché i batteri che fermentano le fibre e quelli che fermentano gli amidi hanno il massimo tasso di crescita a pH ruminale differente. Gli amilolitici in presenza di amidi ad elevata degradabilità ruminale hanno una capacità di crescita molto alta e, grazie alla rapida produzione di acido propionico, riducono rapidamente il pH ruminale sotto a 6.0 creando un ambiente ostile ai cellulosolitici che prediligono un pH ruminale sicuramente superiore a 6.40. In parole povere, una razione ad alta concentrazione di amido è vero che produce molta energia ma non consente di raggiungere la digeribilità della fibra ottimale.
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