Negli ultimi 15 anni è aumentata l’attenzione della opinione pubblica nei confronti dell’impatto che le pratiche agricole e zootecniche hanno nei confronti dell’ambiente. Il consumatore è sempre più sensibile nei confronti della sostenibilità ambientale di queste pratiche e inizia a svilupparsi, parallelamente alla tradizionale valutazione nutrizionale di un alimento, anche un concetto di qualità estrinseca al prodotto che è quella ambientale. La percezione di un prodotto non sostenibile può essere un ulteriore aspetto, oltre a quello del benessere animale, che motiva il passaggio a diete vegetariane o vegane, o più semplicemente alla riduzione dei consumi del latte e dei suoi derivati.

La produzione di latte bovino rappresenta un settore importante della zootecnia Italiana così come quella casearia per l’agro-industria, le due insieme contribuiscono alla produzione di prodotti di altissima qualità che sono conosciuti e apprezzati in Italia e nel mondo. L’allevamento del bovino da latte è spesso associato a pratiche intensive che sono a loro volta associate ad un concetto di maggiore pressione ambientale in termini di consumo di risorse naturali e rilascio di inquinanti.

Negli ultimi anni sono stati svolti numerosi studi che hanno valutato gli impatti ambientali associati alle diverse filiere agro-zootecniche, inclusa quella lattiero-casearia. Al di là dei valori indicati, che vanno letti anche in base al contesto analizzato, possiamo dire che i principali impatti ambientali imputabili all’allevamento del bovino da latte riguardano il rilascio di inquinanti nelle acque e nell’aria e il consumo di risorse come l’acqua e il suolo.

Uno dei principali impatti, che è anche quello più dibattuto, riguarda le emissioni in atmosfera di gas ad effetto serra (GHG). I GHG sono indicati come la principale causa del riscaldamento del pianeta. Il metano (CH4) è il principale gas serra emesso dall’allevamento del bovino da latte ed è prodotto dalle fermentazioni ruminali e da quelle a carico delle deiezioni, in particolare dai liquami. Il protossido di azoto (N2O), che è un potente gas serra, viene emesso dal letame e a seguito della concimazione organica e minerale dei campi. A queste si aggiunge l’anidride carbonica (CO2) emessa dal consumo di energia (elettricità e carburanti) utilizzata per la gestione della stalla e per le operazioni colturali. Questi gas hanno un diverso potenziale nell’esercitare l’effetto serra. La CO2 è stata scelta come unità di riferimento e posta convenzionalmente uguale 1, mentre il metano e il protossido di azoto hanno un potenziale rispettivamente di circa 25 e 300 volte superiore a quello della CO2.

Un altro gas rilasciato in atmosfera è l’ammoniaca (NH3), un potente inquinante che contribuisce ai fenomeni di acidificazione dei suoli e delle acque. Questo gas è prodotto dalle deiezioni e a seguito della concimazione azotata dei campi.

Infine, la concimazione dei campi, sia organica che minerale, è responsabile del rilascio di inquinanti per lisciviazione nelle falde acquifere. In questo caso ci si riferisce principalmente a nitrati e fosfati che sono poi la causa dei processi di eutrofizzazione a carico delle acque superficiali (fiumi, laghi e mare).

Tutti gli studi concordano nell’indicare le attività aziendali (di allevamento e agricole) come le fasi più impattanti su tutta la filiera produttiva del latte. Allo stesso modo, numerosi studi hanno anche dimostrato che esiste la possibilità di mitigare gli impatti. Per mitigazione si intende una riduzione del rilascio di inquinanti. La ricerca ha consentito di individuare diverse soluzioni che permettono di ridurre le emissioni sia per le attività di allevamento che per quelle agricole associate. Queste riguardano principalmente la manipolazione della dieta, la gestione delle deiezioni, l’efficientamento energetico e l’adozione di pratiche agricole più conservative.

Tra le tecniche gestionali suggerite per la mitigazione rivestono grande importanza quelle alimentari. Nei ruminanti il metano enterico rappresenta una delle fonti emissive più importanti e queste sono strettamente correlate alla quantità e qualità degli alimenti ingeriti. Ad esempio, la produzione di metano enterico può essere ridotta con diete più concentrate e con foraggi di buona qualità. In altre parole, l’emissione di metano è inversamente proporzionale alla quantità di alimento ingerita e alla digeribilità della razione. Anche il corretto apporto proteico, fornito in funzione delle esigenze dell’animale, rappresenta un buona strategia di mitigazione in quanto riduce la quantità di azoto escreto nelle deiezioni e conseguentemente le emissioni che ne derivano (NH3 e N2O). Numerose sono anche le soluzioni suggerite per una gestione delle deiezioni più sostenibile, che comprendono la riduzione dei tempi di stoccaggio, la digestione anaerobica, l’areazione, la separazione solidi-liquidi e indirettamente la manipolazione della dieta. Una rassegna più completa delle diverse soluzione di mitigazione è riportata nel libro bianco “Sfide e opportunità dello sviluppo rurale per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici”.

Tuttavia, al di là delle singole soluzioni, la gran parte degli studi concordano nell’indicare come la sostenibilità ambientale del latte sia legata innanzi tutto alla maggiore efficienza produttiva dell’azienda. La diminuzione del numero di capi allevati, raggiunta grazie alla selezione di genotipi più produttivi e al progresso tecnologico, ha già contribuito a ridurre gli impatti ambientali associati al litro di latte prodotto in Italia. Questo concetto è ben rappresentato da uno studio americano (Capper et al., 2007; pubblicato sul Journal of Animal Science), che ha dimostrato come l’efficientamento del sistema produttivo del bovino da latte, raggiunto negli Stati Uniti negli ultimi 60 anni, abbia determinato, a fronte della stessa quantità di latte prodotta, una riduzione delle emissioni di metano del 60% e di quelle del protossido di azoto di circa il 50%. Questi dati ci dicono principalmente due cose: che l’intensificazione dell’allevamento del bovino da latte ha consentito di ridurre le emissioni a fronte di una maggiore efficienza produttiva; e che questa è probabilmente la strada da seguire nei prossimi decenni per rispondere alla crescente domanda di prodotti di origine animale generata a seguito dell’incremento della popolazione mondiale e delle nuove abitudini alimentari dei popoli.

In questi ultimi anni si sta iniziando a considerare le attività agro-zootecniche non più solo come un problema ambientale ma bensì come una opportunità per l’ambiente. La capacità dei suoli agricoli di sequestrare il carbonio atmosferico offre al settore agricolo e zootecnico un ruolo attivo nella riduzione della CO2 su scala planetaria. Una gestione dei suoli più sostenibile, che può essere raggiunta attraverso opportune pratiche di pascolamento e coltivazione (ad esempio le minime lavorazioni o la semina su sodo), consentirebbe di preservare/incrementare il contenuto di sostanza organica presente nel suolo. Le politiche comunitarie di sviluppo rurale dei prossimi anni saranno incentrate alla riduzione delle emissioni in tutti i settori produttivi e al sequestro del carbonio atmosferico da parte dei suoli agricoli e forestali (considerati come dei sink di carbonio). Il credito di carbonio generato dalla sostanza organica presente nei suoli aziendali rappresenterebbe una importante strategia di mitigazione per ridurre l’impatto associato al latte prodotto.

Il crescente interesse verso le problematiche ambientali ha determinato lo sviluppo di metodologie analitiche che consento una valutazione degli impatti ambientali associati a vari prodotti, incluso il latte e i suoi derivati. La principale metodica è l’analisi del ciclo di vita o Life Cycle Assessment (LCA) che prende in considerazione tutte le emissioni associate alle attività di allevamento, anche quelle avvenute al di fuori dell’azienda. Ad esempio, sono considerate le emissioni generate a seguito dell’utilizzo dei fertilizzanti in azienda ma anche quelle emesse per la produzione del fertilizzante avvenute in fabbrica. Questo tipo di approccio prende anche il nome di valutazione dalla culla alla tomba, includendo tutti gli aspetti del ciclo di vita di un prodotto a partire dall’origine fino ad arrivare al fine vita dello stesso.

La procedura LCA è standardizzata a livello internazionale dalle norme ISO 14040 e 14044 (2006). Recentemente sono state rilasciate le norme ISO 14067, che sostanzialmente seguono le norme 14040 e 14044 ma sono specifiche per la sola valutazione dei gas serra. La metodologia LCA consente l’individuazione degli hot spot emissivi su tutto il ciclo di vita e di pianificare opportuni interventi di mitigazione. LCA è richiesta per le certificazioni ambientali di prodotto che rappresentano ad oggi l’unico strumento disponibile per valutare l’impatto ambientale generato per la produzione del latte.

Diversi marchi lattiero-caseari italiani hanno già da tempo certificato l’impatto ambientale dei loro prodotti. Non sono stati ancora emanati limiti o riferimenti emissivi per la produzione del latte, pertanto queste certificazioni rappresentano un’operazione di trasparenza su scala volontaria in cui l’azienda rende pubblici i suoi impatti ambientali. I numerosi prodotti dell’agro-industria certificati negli ultimi anni testimoniano la crescente sensibilità dei grandi gruppi industriali nei confronti dell’ambiente. Le certificazioni ambientali di prodotto sono utili per comunicare gli impatti tra gli stakeholder ma non hanno però una grande forza comunicativa nei confronti del consumatore ed è per questo che il marchio non viene nemmeno riportato sulla confezione del prodotto. Ulteriori limiti di queste certificazioni sono rappresentati dalla complessità dell’analisi LCA e dai costi. La grande quantità di informazioni richieste per eseguire una LCA e i costi elevati del percorso di certificazione consentono l’acquisizione di queste etichette solo alle grandi aziende.

E’ auspicabile lo sviluppo di altre forme di certificazioni, meno complesse e costose, che consentano di testimoniare il rapporto con l’ambiente e gli eventuali sforzi di mitigazione anche alle aziende più piccole. Rispetto a quest’ultima possibilità va ricordato che l’implementazione in azienda di misure di mitigazione è condizionata dai costi necessari a sostenere l’azione e dagli eventuali ricavi che la misura può generare. L’erogazione di finanziamenti pubblici a supporto delle politiche ambientali dovrebbero essere vincolati alla valutazione o certificazione ambientale delle aziende. Questa informazione aiuterebbe a capire meglio l’entità del problema, a individuare i punti critici del sistema produttivo, e ad alimentare un sano confronto tra tutti gli attori della filiera rispetto a quanto è stato fatto e a quello che si può fare per aumentare la sostenibilità ambientale del latte bovino.

DOI: 10.17432/RMT.2111-2121