Lo scopo di questo articolo non è un inno ad una figura, quella del pastore, che sta scomparendo (se non lo è già del tutto) quanto più una sua rivalutazione in campo professionale, alla pari di qualsiasi altra figura in ambito zootecnico.

La figura del pastore ha radici antichissime, con riferimenti anche religiosi: basti pensare ai numerosi richiami biblici e al riferimento alle anime come pecore, che vengono guidate da una guida spirituale, un pastore per l’appunto. Quello del pastore è un mestiere, alla pari di un falegname o di un qualsiasi artigiano, ma che prevede delle impostazioni caratteriali uniche nel suo genere. Quello che rende merito a questa figura sono le competenze che un pastore deve avere per salvaguardare l’incolumità del suo gregge e di sè stesso. Storicamente era una persona inadatta a svolgere il lavoro nei campi, quindi spesso si trattava di bambini e anziani, raramente donne. Tuttavia era un lavoro che prevedeva una notevole prestanza fisica, in quanto ogni pastore doveva percorrere notevoli distanze a piedi (o in alcuni casi con un cavallo, un mulo o un asino) in qualsiasi condizione climatica, doveva se necessario trasportare sulle spalle animali che non erano in grado di tornare all’ovile, o trasportare gli agnelli nati inaspettatamente al pascolo che non avevano ancora la forza di percorrere un lungo tragitto. Doveva essere un soggetto abituato anche a periodi di completa solitudine, che potevano durare un giorno o addirittura mesi, nei quali dormiva all’aperto o in ricoveri di fortuna.

Il pastore, a seconda della stagione, raccoglieva ciò che la natura gli offriva (frutti, funghi e altre essenze) e doveva provvedere a portare a casa anche materiale da ardere, indispensabile per il riscaldamento delle abitazioni e per la trasformazione del latte. Molto spesso il pastore era anche un mungitore, non di rado trasformava personalmente il latte (una o due volte al giorno) e, prima dell’avvento della plastica, realizzava gli utensili e gli stampi per la lavorazione del latte. Il pastore solitamente era un abile artigiano: realizzava infatti collari ed altri elementi per le campane che venivano fatte indossare agli animali del gregge, fungendo da custode anche di questa arcaica pratica che era un mondo a sè, con le proprie tradizioni territoriali e personali. Abile conoscitore dei sentieri di montagna o di pianura, si occupava anche della manutenzione degli stessi, facendo indirettamente un favore alla collettività; conosceva anche, per forza di cose, tutte le sorgenti d’acqua, che curava e puliva con cura.

Il ruolo del pastore era in senso più ampio quello di custode e come tale proteggeva il gregge da predatori di qualsiasi natura (rapaci, orsi, lupi, etc.) ma anche dai ladri di bestiame, conosceva i luoghi critici in cui essi avrebbero potuto attaccare, interpretando anche i segnali che le sue bestie gli inviavano, e attraverso l’ascolto di questi segnali sapeva anche anticipare le condizioni climatiche che si sarebbero susseguite nei giorni avvenire. Doveva saper seguire le tracce, poiché in caso di smarrimento di uno o più animali avrebbe dovuto ricostruire il percorso fatto e ritrovarle. Doveva anche conoscere buona parte del suo gregge, poiché in caso di smarrimento non sempre aveva la possibilità di contare gli animali ma doveva cercare quelli che erano gli animali che avrebbe potuto perdere: animali troppo anziani, troppo giovani o in cattivo stato di salute, o anche animali che avevano la cattiva abitudine di isolarsi dal gregge e animali che partorivano al pascolo, in quanto per proteggersi dai predatori preferivano posti isolati. Questa in verità era una situazione molto temuta dal pastore perché non potendo abbandonare il resto del gregge sarebbe dovuto ritornare indietro con tutti gli animali sotto la sua custodia in modo da dare la possibilità anche a quelli smarriti di tornare dopo aver identificato i compagni di gregge.

All’occorrenza, il pastore doveva diventare un “veterinario”, ad esempio nei parti distocici, nei fenomeni di meteorismo, in caso di ferite e di tutte le altre patologie che gli animali mostrano al pascolo, isolandosi e smettendo di mangiare o di ruminare. Doveva evitare soprattutto alcune di queste malattie, gestendo in maniera ottimale l’utilizzo dei pascoli, avendo cura di far pascolare poco o gradualmente foraggere in grado di provocare problemi, evitare pascoli con erbe potenzialmente tossiche o il pascolamento continuo con il rischio di danneggiare il cotico erboso (contenendo anche il rischio di malattie parassitarie). Una frase caratteristica della memoria pastorale era: “un gregge di pecore tre pascoli li paga, ma uno solo no” nel senso che, alla pari delle stalle, il sovraffollamento di un pascolo (quasi sempre in affitto, quindi letteralmente pagato) non permetteva il ricaccio delle varie essenze foraggere e di conseguenza le greggi non erano produttive. Questo aspetto era legato soprattutto alla mancanza di pascoli nuovi e abbondanti ma anche allo stato “psicologico” degli animali che si vedevano chiusi sempre in una determinata zona. Il pascolamento continuo provocava anche un carico di feci sul terreno che rendevano maleodorante il pascolo e portava il gregge alla ricerca continua e disperata di angoli “puliti” e intatti: ciò si traduceva in una continua maratona che andava ad esaurire le riserve corporee degli animali che quindi risultavano magri e apatici.

Il buon pastore doveva educare il suo gregge: non avendo il dono dell’ubiquità doveva impartire precisi comandi vocali (senza abusarne per non avere l’effetto opposto) ai quali il suo gregge avrebbe dovuto ubbidire. Pur essendo munito di bastone (di eccellente manifattura, autoprodotto), sapeva che maltrattare il suo gregge avrebbe alimentato diffidenza verso la sua figura, e sarebbe stato controproducente in quanto il gregge lo identificava come “capo branco”. Infatti, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, uguale come intensità e contraria rispetto ai movimenti: ad esempio un pastore nervoso o irruento trasmette il suo stato d’animo al gregge che starà in stato d’allerta. Oltre ai comandi vocali, il pastore doveva saper camminare nel suo gregge, ponendosi sul lato sinistro qualora la direzione da prendere fosse stata a destra e così via; doveva anticipare i movimenti del gregge portandosi davanti ad esso, come succedeva nei sentieri e a ridosso dei campi coltivati, doveva in sostanza porsi all’estremità del gregge e mai in mezzo, sia perché non avrebbe avuto la possibilità di esprimere un comando e sia perché doveva porsi come capo branco, e difficilmente un capo branco sta nel mezzo del gregge. Quasi sempre il pastore era accompagnato da uno o più cani, che doveva addestrare come e più del gregge, sia allo scopo di non nuocere a chi si fosse avvicinato agli animali ma solo avvisare il pastore e schierarsi davanti agli animali, sia a fronteggiare i predatori in modo compatto, difendendosi l’uno con l’altro. A dire il vero quest’ultimo aspetto è difficile se non impossibile da insegnare, poiché fa parte delle caratteristiche comportamentali del cane, tuttavia il pastore interveniva selezionando una muta di cani molto affiatati tra loro, con delle gerarchie stabilite in modo tale che i cuccioli che seguivano le madri avrebbero avuto modo di imparare pur non essendo molto d’aiuto. Discorso analogo avveniva anche per gli agnelli da rimonta, che quasi sempre seguivano le madri al pascolo e ne emulavano i comportamenti, ma che quando erano numerosi tendevano a far gruppo tra coetanei per dedicarsi al gioco, scorrazzando vicino al gregge. Capitava che però data l’irruenza e “l’incoscienza” dei giovani agnelli il loro gioco si svolgesse in prossimità di fossi o anche piccoli ruscelli, luoghi questi che dovevano essere sorvegliati in modo continuo in modo da poter intervenire con tempismo. La curiosità degli agnelli portava anche ad un “infastidimento” dei cani che seguivano il gregge, la cui risposta veniva osservata poiché non di rado qualche agnello subiva qualche morso dagli stessi cani.

In Italia, almeno prima della riforma agraria, la quasi totalità dei pastori era caratterizzata da operai stipendiati, non sempre in denaro ma anche con baratto di alcune materie prime, ad esempio grano. Nel post riforma agraria invece molti dei pastori dei grandi proprietari terrieri continuarono ad esercitare la professione per conto proprio, con i loro piccoli greggi. L’allevamento degli ovicaprini era spesso nomade o transumante e sfruttava soprattutto le zone marginali dei territori: questo potrebbe essere una delle cause per cui l’allevamento di questi animali non ha subito l’evoluzione e la ricerca che ha interessato la vacca da latte, o più recentemente quello della bufala da latte.

Come accennato all’inizio dell’articolo la figura del pastore sta scomparendo, e le cause possono essere molteplici. Il cambio generazionale susseguitosi negli anni ha portato ad una gestione diversa dalle greggi e dell’allevamento, quindi quello che prima era un pastore ora è un allevatore/imprenditore. Si è perso anche quell’approccio olistico del pastore, ovvero quella capacità di far fronte a tutte le situazioni, lasciando spazio alla figura del tecnico in stalla (alimentarista, veterinario, etc). Non si sa se questo sia un bene o un male, quello che però è certo è che stiamo parlando di animali completamente diversi da quelli del passato. In passato infatti venivano allevati animali a triplice attitudine poiché esisteva un mercato sia per la lana che per la carne, oltre che per il latte ovviamente. Ora si parla di animali da latte, o comunque a duplice attitudine, con medie produttive da capogiro rispetto al passato. Direttamente proporzionale quindi è l’aumento dei fabbisogni a fronte di una capacità d’ingestione quasi invariata rispetto al passato, e ciò implica una gestione alimentare e sanitaria più accurata: ecco spiegato il ruolo dei tecnici in stalla.

Le patologie riscontrabili in allevamento oggi sono maggiori rispetto al passato, ma non perché gli animali siano meno sani rispetto agli anni precedenti, ma semplicemente perché parliamo di “atlete” che, con un maggiore sforzo metabolico volto alla produzione, hanno più facilmente qualche defaillance del sistema immunitario. Questo spiega il ruolo dei vaccini e della prevenzione in genere, impensabile qualche decennio fa. Facendo un esempio, è una persona che monta a cavallo ha molte più probabilità di farsi male rispetto a chi magari fa una vita sedentaria. Stesso discorso vale anche per la nutrizione, completamente diversa rispetto al passato: periodi di restrizione alimentare (come avveniva ad esempio nei mesi invernali) oggi non sono più tollerati, in quanto le esigenze per la produzione devono essere rispettate per non sfociare nelle patologie legate alla nutrizione. E qui entra in gioco il benessere animale: se è vero che il rispetto delle 5 libertà sancite dal Farm Animal Welfare Council contribuisce ad assicurare un’ottima condizione di vita agli animali, probabilmente oggi più di ieri è vero che il benessere animale viene rispettato.

C’è chi continua a fare uso del pascolo in recinti mobili o fissi di medie o grandi dimensioni, avendo cura di spostare frequentemente gli animali. Questo perché non esiste quasi più una manodopera specializzata e continuare con  figure non adatte potrebbe essere controproducente. Ricordiamo però che non tutte le razze si prestano bene al pascolamento nei recinti, e ciò vale soprattutto nelle razze meno “domesticate”: questo è un altro particolare che spiega l’avanzata ininterrotta di razze ovicaprine da latte, soprattutto estere, che si prestano bene all’allevamento intensivo. Questo passaggio desta ancora molta preoccupazione tra gli allevatori, dato il costo delle materie prime e degli investimenti strutturali che viene però compensato da minori perdite di animali e maggiori produzioni degli stessi. Certo un po’ di rammarico lo si avverte, perché quando non ci saranno più gli ultimi pastori il loro sapere andrà via con loro, ma se qualcuno è ancora fortunato a poter apprendere questa antica arte, che lo facesse senza indugio. Come recita un proverbio popolare “impara l’arte e mettila da parte”, la zootecnia va sempre evolvendosi (e questo è un bene) con un minore carico di lavoro fisico, ma non possiamo sapere cosa ci aspetterà in futuro.