La fertilità delle bovine da latte in particolare, ma anche delle bufale, delle pecore e delle capre, è un tema che ha l’assoluta priorità per gli allevatori, i medici veterinari e i nutrizionisti.
Questo per la banale motivazione che il latte in stalla si fa se gli animali partoriscono, e la quantità di latte prodotta da un allevamento è inversamente proporzionale ai giorni medi di lattazione. Anche se l’utilizzazione delle sincronizzazioni ormonali ha temporaneamente attenuato il problema della “sindrome della sub-fertilità”, è necessario ricercare soluzioni strutturali semi-definitive per quando, per ragioni di opinione pubblica e di selezione genetica, si dovrà utilizzare questa pratica farmacologica solo per i soggetti problema e non per un intervento sistematico.
L’alimentazione degli animali da latte, ed in particolare delle bovine, ha il compito non solo di fornire tutti quei nutrienti necessari per produrre latte, grasso e proteine ma anche per “mantenersi”, crescere, riprodursi e avere un sistema immunitario efficiente. Le razze e gli individui che producono più latte lo fanno perché la selezione genetica ha manipolato il loro assetto ormonale e metabolico con la finalità di mettere a disposizione della mammella, e quindi dell’allattamento del vitello, la più alta quantità possibile di amminoacidi, acidi grassi e glucosio, in modo da produrre, rispettivamente, caseina, grasso e latte. Questa priorità metabolica della mammella, che altro non è che il cosiddetto “istinto materno”, una volta che questi animali sono gravidi si sposta all’utero e alle riserve lipidiche corporee, e quindi sempre al vitello che in questa fase è ancora un feto.
Nelle razze da latte, soprattutto in quelle in cui la selezione genetica è più intensa, è considerato “para-fisiologico” che verso la fine della gravidanza e nelle prime settimane di lattazione gli animali siano in bilancio energetico (NEBAL), proteico (NPBAL) e di gruppi metilici (NMDB) negativo, anche se la lista dei bilanci negativi è probabilmente più lunga di quanto oggi conosciamo, perché potrebbe includere vitamine, minerali e acidi grassi essenziali. “Bilancio negativo” significa in biologia che la quantità di un nutriente apportato direttamente o indirettamente dal cibo non è in grado di soddisfare appieno i fabbisogni di tutte, o parte, le funzioni metaboliche.
Questo status di deficit negativo ha delle ripercussioni positive e alcune negative. Quelle favorevoli sono ad esempio legate al grasso del latte. Un ruminante da latte in NEBAL cerca energia e, non trovando una sufficiente quantità di glucosio perché questo è dirottato nella mammella per la sintesi di lattosio, ricorrerà alle riserve lipidiche, ossia mobilizzerà dal tessuto adiposo gli acidi grassi ivi stoccati. Questi acidi grassi verranno in parte dirottati al fegato per la produzione di energia, ma una porzione considerevole verrà utilizzata dalla mammella per la sintesi del grasso del latte. Durante questo lungo periodo di bilancio negativo, che come abbiamo già detto può iniziare durante le ultime fasi della gravidanza ed estendersi per molte settimane dopo il parto, con la sola eccezione del periodo del puerperio, nelle ovaie si susseguiranno ondate di maturazione dei follicoli ovarici. Sappiamo che i follicoli, sia quelli ovulatori che delle coorti, impiegano circa 4 mesi per passare dalla fase primordiale a quella “adulta”. Tra questi follicoli emergerà quello dominante destinato all’ovulazione. Durante tutto questo periodo, fattori di crescita come l’IGFs e le gonadotropine ipofisarie accompagnano e condizionano la crescita follicolare. La secrezione di questi ormoni e fattori di crescita può essere molto condizionata dalla nutrizione, dalla gestione e dalla sanità degli animali. Inoltre, molecole come il BHB, l’urea, i NEFA, il glucosio, etc., attraverso il contatto che esiste tra il sangue che irrora l’ovaio e il fluido follicolare, concorrono anch’esse a condizionare la crescita follicolare e la qualità dell’ovocita.
Le interferenze tra nutrizione, gestione e sanità e riproduzione influenzano anche la qualità dell’istotrofo (leggi anche “Gli embrioni vanno nutriti“), anche chiamato latte uterino, e quindi la crescita dell’embrione e la sua proporzionale possibilità di produrre INF-τ. Questo influenza anche indirettamente la produzione di progesterone da parte del corpo luteo. Lo stress in senso generale, ma anche quello da caldo, la concomitante presenza di malattie infettive, e quindi infiammazione, e le malattie metaboliche interferiscono negativamente sulla qualità del follicolo e dell’ovocita e sulla sopravvivenza dell’embrione. Alcuni di questi fattori condizionanti possono agire per una durata variabile in ognuna delle tappe che partono dal follicolo primordiale e arrivano al feto.
E’ tipico della natura umana cercare le semplificazioni, e questo vale anche nella gestione della fertilità dei ruminanti e di ogni altro essere vivente. L’approccio più corretto ed efficace è però quello di tipo olistico, ossia quello che ritiene gli aspetti biologici tutti plurifattoriali e che è in grado di analizzarne contemporaneamente ogni aspetto condizionante. La semplificazione spesso utilizzata di ricondurre ad una carenza energetica o ad un eccesso proteico la causa di patologie ovariche come le cisti, le morti embrionali o il comportamento estrale è sicuramente deresponsabilizzante ma poco o nulla utile per risolvere la sindrome della sub-fertilità.
E’ bene cominciare ad “allenarsi” con intensità all’approccio olistico in materia di riproduzione, sia perché è il primo fattore condizionante le performance produttive e sia perché non credo che mancherà molto tempo all’interruzione della TAI (inseminazione a tempo determinato) utilizzata sistematicamente su tutti gli animali.
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