L’avvento di internet ha modificato radicalmente il comportamento sociale delle persone e le modalità con cui avviene la propagazione della cultura.
Alcuni numeri. Ad oggi 4 miliardi di persone sono connesse alla Rete e in Italia sono 43 milioni, il 73% della popolazione. Il tempo giornaliero trascorso su internet è mediamente di 6 ore, contro le 3 ore spese a vedere la TV o film. Ben 4 milioni d’italiani sono attivi sui social media. Le piattaforme social più attive sono YouTube (62%) e Facebook (60%). Twitter si trova invece al settimo posto, con il 23% degli utilizzatori.
Sul fronte libri si riporta invece che 23 milioni d’italiani (ISTAT 2016) hanno letto in un anno almeno un libro, con un calo di 4 milioni di persone rispetto al 2010.
Un tema su cui riflettere, senza fare dietrologia, non è se questi numeri siano un bene o un male, anche perchè se scritto da Ruminantia che vive principalmente e orgogliosamente sul web non sarebbe un giudizio imparziale. Il libro rappresenta lo sforzo titanico di uno scrittore di descrivere minuziosamente una storia o un argomento tecnico o scientifico. Una biblioteca, sia cartacea che digitale (e-book), è come un agorà di persone pronte ad illustrare con dovizia di particolari e con calma un’esperienza, un’idea o una teoria. Per leggere un libro si deve essere predisposti all’ascolto e ci vuole molto tempo e molta concentrazione, ma si dice anche che la lettura allena la mente e l’aiuta a non invecchiare. Il libro è un po’ come il vecchio modo di mangiare, lentamente e insieme ad altri. Twitter è invece l’estremo opposto, ossia il comunicare molto sinteticamente e velocemente un’opinione o un concetto nello spazio esiguo di 140 caratteri, ora 280 anche se la maggior parte dei 330 milioni di utenti di Twitter rimane al di sotto di questa recente “concessione”. I social sono figli della cultura del mordi e fuggi e purtroppo molto spesso del “tirare il sasso e nascondere la mano”, ma sono anche l’antidoto alle dittature culturali e non solo.
Rimaniamo però nell’ambito delle informazioni “professionali”, ossia quelle che servono ad un operatore, che, come nel nostro caso, fa business nelle filiere del latte e della carne da ruminanti, per esercitare sempre meglio la sua attività. Tutti gli operatori dell’informazione, e quindi della divulgazione, vivono il dilemma se cedere all’informazione stile Twitter o Facebook, ossia breve, non argomentata e dal titolo accattivante, apparentemente gradita ai più, oppure approfondire una notizia o un argomento tecnico-scientifico puntando ad una nicchia di difficile quantificazione che resiste nel voler avere “idee proprie” e non vivere di “idee altrui”. Una nicchia che tanto piccola non è, e che vuole capire bene le cose. Quando si analizzano pro e contro di questi nuovi modi di comunicare e aggiornarsi non va assolutamente dimenticato che ormai la gente cerca nel web conferme alle proprie supposizioni e tende a dialogare con chi la pensa allo stesso modo. E’ difficile che ci si confronti con chi ha idee diverse, ed è questo ciò che spaventa, perché è una seria ipoteca verso l’innovazione e quindi il futuro. Nel mondo analogico, il viaggiare e conoscere nuove realtà apriva la mente all’innovazione ed era un antidoto verso i pregiudizi. Al tempo della carta stampata e della televisione generalista, era però la “casta” ristretta dei giornalisti a intermediare le informazioni, ossia a sceglierle, interpretarle e farne una sintesi per la gente. Il tempo ci ha insegnato quanto fosse pericoloso e strumentalizzabile tutto ciò, e sicuramente non era il metodo migliore per far circolare informazioni di qualità.
Nel nostro settore, ma questo vale per tutti i business, le informazioni di qualità, ossia quelle provenienti da una ricerca scientifica rigorosa ed imparziale e da esperienze raccolte ed elaborate con i rigidi criteri della statistica e dell’epidemiologia, e le performance economiche del settore provenienti da fonti autorevoli, sono strumenti preziosi per fare profitto e per far crescere in prestigio la propria attività. Certo è che questa strada è faticosa ed onerosa, e che non dà soddisfazioni immediate.
La strada alternativa è quella di assecondare lo stile dei social media e diffondere concetti elementari, spesso figli di copia e incolla della rete, che tutti possono scrivere e che non impegnano il lettore negli approfondimenti. Un po’ come si fa quando al bar si parla di politica, di sport e quant’altro, dove tutti si diventa esperti indiscussi e ci si indigna perché non si viene chiamati per allenare una squadra di calcio, governare un paese o risolvere un complesso problema tecnico. Nè al bar nè nei social c’è bisogno di avere studiato specificatamente la materia di cui ci si sente padroni o di aver dimostrato nei fatti di essere grandi professionisti e/o grandi allevatori. Forse è il bar il luogo da cui sono nati i social, ossia un luogo piacevole e frivolo, inviso agli stacanovisti del lavoro, dove chiunque può esprimere una propria opinione e forse qualcuno la sta anche ad ascoltare, sempre che sia simile a quello che ci si aspetta di sentire, altrimenti si va via o si continua con lo scroll.
La verità è che servono l’uno e l’altro, ossia lo slow food e il fast food della mente. Pensare che le informazioni “business” debbano essere necessariamente corte ed elementari altrimenti nessuno le legge significa condannare al non sviluppo le imprese e all’imbarbarimento la società. Ritenere la diffusione della cultura un’esclusiva di una nomenclatura di editori ed “esperti” è altamente pericoloso, e le conseguenze le abbiamo già sperimentate. Per cui va bene un panino al volo da soli in Autogrill, ma una bella cena o pranzo dove discutere di vino e cibi sopraffini con dovizia di particolari, in compagnia di persone eterogenee, deve essere un’abitudine irrinunciabile e da coltivare.
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