A vederlo così il latte, essendo bianco, sembra tutto uguale, ad eccezione di quello che proviene da ampie zone del nord Europa che per alcuni o tutti i mesi dell’anno è giallo a causa dell’alimentazione a base d’erba. Questo secreto della mammella è utilizzato dall’industria per produrre formaggi, burro, panna, latte alimentare delle varie categorie merceologiche e quant’altro. Allo stato attuale delle cose, il prezzo del latte alla stalla è deciso da chi acquista e all’allevatore rimane solo il risicato margine di manovra di raggiungere i premi qualità in genere strutturati per grasso, proteina o caseina, cellule somatiche, carica batterica e spore. A sua volta l’industria di trasformazione compete sul mercato con le “armi” del marketing, della distribuzione e con prodotti più o meno elaborati.
Il latte però, proprio perché viene prodotto da un ruminante, e grazie alle conoscenze acquisite nel campo della nutrizione e della genetica, può essere in qualche modo “naturalmente” manipolato per il sapore, il colore o per la presenza di sostanze nutraceutiche sicuramente ad effetto positivo sulla salute umana. Per fare solo degli esempi: nel contenuto di acidi grassi omega-3 e di acido linolenico coniugato (CLA), per alcune frazioni della caseina, peptidi bioattivi e sostanze aromatiche che tipicamente derivano dalle essenze vegetali che conferiscono al latte odori e sapori a volte molto interessanti.
Inoltre sembrerebbe che i consumatori siano molto sensibili alla zona di provenienza del latte, al punto che buona parte dell’industria del latte che opera in Italia ha voluto/dovuto indicare sulla confezione, e come indicazione volontaria, l’origine del latte che se italiana sembra oggi essere il claim più importante. Sia in Italia che all’estero. Nonostante tutto ciò l’ormai cronica trattativa tra industriali e allevatori sul prezzo del latte alla stalla non ha mai trovato nè un metodo nè una soluzione definitiva e lo scontro frontale e le azioni sindacali non hanno portato ad alcuna soluzione. L’industria, per certi versi correttamente, sostiene che il prezzo base del latte lo fa il mercato ormai europeo e l’allevatore, altrettanto legittimamente, che con questi prezzi non ha un futuro tanto lontano e nemmeno un presente. Il tutto poi in un contesto di calo dei consumi che sembra inarrestabile e senza via di fuga.
Crediamo che un dialogo sereno e di idee tra industria e allevatori possa invertire questa tendenza, a patto che parte e controparte facciano la loro. L’industria sa perfettamente cosa vuole, o meglio cosa vorrebbe, il consumatore per riprendere a consumare latte e formaggi come prima. Con un po’ di coraggio imprenditoriale in più e lungimiranza si potrebbe iniziare il percorso per andare oltre al solo pagamento qualità e per differenziare il latte in altre categorie merceologiche in funzione del colore, del sapore, dell’odore, delle molecole nutraceutiche, e dell’origine geografica.
Il consumatore è anche molto sensibile agli aspetti etici e di sostenibilità, e quindi altri claims come il benessere animale e l’impatto ambientale potrebbero essere ulteriori strumenti funzionali per contrastare il calo dei consumi e il basso prezzo del latte alla stalla. Auspicabile sarebbe far evolvere il latte in altre categorie merceologiche diverse e complementari a quelle che la legge stabilisce, ossia legare i premi sul prezzo del latte alla capacità dell’allevatore di fornire all’industria tutti quella serie di claims, sicuramente graditi ai consumatori, e che possano invertire quella inarrestabile tendenza al ribasso che sembra irreversibile e diffusa in tutto il mondo. E visto cosa si è riusciti a fare con DOP, IGP e STG non dovrebbe essere così difficile per il nostro paese.
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