Mi fece molto riflettere l’articolo di Alessandra Corica pubblicata su Repubblica il 26 maggio 2015.

Michi, 15 anni, per 43 minuti sott’acqua: il risveglio al San Raffaele, miracolo della scienza. Portato in ospedale in condizioni disperate è stato salvato da un’intuizione dei medici: l’acqua fredda lo aveva come ‘ibernato’. Poi un “super bypass” lo ha riportato in vita.

Mi sono immaginato la scena. Arriva in pronto soccorso questo giovane in fin di vita. I medici avrebbero potuto applicare uno degli innumerevoli protocolli di cui di dispongono per casi come questo. Se il paziente fosse morto, il dolore di un decesso e il fallimento professionale sarebbero stati totalmente attutiti dalla consapevolezza che tutto ciò che si poteva fare si era fatto.

Nel caso di Michi i medici scelsero però, rischiando anche severi provvedimenti disciplinari, di agire con un approccio professionale costruito inconsapevolmente in anni di studi ed esperienze empiriche. In questo modo hanno salvato una giovane vita, hanno dato lustro alla medicina e hanno fatto riflettere in molti sui protocolli.

Intendiamoci bene: i protocolli diagnostici e terapeutici vengono costruiti sulle solide fondamenta della ricerca scientifica e dell’esperienza clinica. Aiutano sicuramente i neofiti ad essere efficaci e sono altamente deresponsabilizzanti, anche penalmente.

I protocolli non possono però prevedere nei dettagli tutte le situazioni che si presentano e rischiano di assopire l’intuizione e l’intelligenza del medico.

I protocolli gestionali e terapeutici hanno invaso anche la zootecnia e l’agricoltura, sollevando gli allevatori dal prendere decisioni difficili ogni momento. Ce ne sono per gestire il ristallo dei bovini da carne, per l’asciutta selettiva, per i piani vaccinali e per quelli ormonali per la riproduzione, per gestire la coltivazione, raccolta e stoccaggio dei singoli alimenti zootecnici e tanti altri.

Il tendere ad utilizzare maggiormente i protocolli piuttosto che l’approccio professionale permette di ricorrere a collaboratori meno specializzati e preparati, e sicuramente di risparmiare dei soldi, ma espone al rischio che, di fronte a vere emergenze o a cambiamenti di conoscenze o di leggi, non si sappia come muoversi, almeno fino a quando un nuovo protocollo non sostituirà il precedente.

L’allevamento degli animali da reddito subisce una costante e profonda evoluzione. Da un punto di vista tecnico la selezione genetica modifica continuamente gli assetti ormonali e metabolici degli animali in allevamento. Basta una variazione anche minima di un indice genetico che, in capo a pochissimi anni, ci si ritrova a gestire animali spesso molto diversi dalle generazioni precedenti.

Il velocissimo cambiamento climatico a cui stiamo assistendo modifica rapidamente le condizioni ambientali di stalla e il tipo e la qualità degli alimenti che si possono coltivare. Anche i patogeni responsabili delle malattie virali, batteriche, fungine e parassitarie degli animali e delle piante evolvono, e il cambiamento climatico in atto sta agevolando l’ingresso in Italia di patologie classificate come tropicali.

Esistono anche fattori agricoli e zootecnici che ogni anno cambiano “le carte in tavola”. La diversa distribuzione e intensità delle piogge sta fortemente condizionando i piani agronomici, come anche le grandi difficoltà nel gestire la fauna degli ungulati selvatici.

Per quest’ultimo problema sembrerebbe che la soluzione da adottare sia semplice, ossia il contenimento del numero degli animali attraverso la cattura o la caccia programmata per i quali ci sono protocolli collaudati, ma questi provvedimenti sono invisi alle associazioni animaliste che espongono i decisori politici al solito ricatto elettorale.

L’opinione pubblica poi nutre molte perplessità su alcuni paradigmi dell’allevamento degli animali, e questo impone di trovare valide soluzioni alternative spesso empiriche perché la ricerca scientifica ha giustamente tempi molto lunghi per rendere le sue conclusioni affidabili, plausibili e soprattutto ripetibili.

Non appiattirsi sui protocolli significa allenare l’intelligenza, che altro non è che la capacità di adattarsi a situazioni nuove.

La cultura genetica, ambientale, nutrizionale, gestionale, sanitaria e umanistica degli allevatori, degli zootecnici e dei veterinari deve continuamente aggiornarsi perché questo è anche un valido esercizio per far crescere la propria esperienza e intelligenza.

È bene infine ricordare che di protocolli ce ne sono di due tipi: quelli acquisiti e quelli prodotti in azienda. I primi sono quelli forniti all’allevatore o ai suoi tecnici da altri professionisti, da società scientifiche, da industrie che vendono beni strumentali per la zootecnia o da enti di ricerca.

Per chi opera negli allevamenti è spesso difficile valutarne l’efficacia, se non dopo averli applicati per un certo tempo, e comunque non possono gestire tutte le situazioni anomale che si presentano nell’allevamento.

Quelli invece prodotti in azienda, attraverso la condivisione di idee e pareri della squadra che gestisce l’allevamento, composta dall’allevatore, dal veterinario, dallo zootecnico e dal personale, sono magari meno “raffinati” e titolati ma si rivelano sempre piuttosto efficaci perché costruiti come un vestito su misura.

Quando poi questi protocolli customizzati non escludono ma anche convivono con le numerose e senza limiti interazioni con l’approccio professionale, i risultati tecnici ed economici che ne derivano sono sicuramente di elevata qualità.