Dall’alba dei tempi l’uomo e il suo inquieto cervello hanno cercato di dare una spiegazione alle cose e di trovare un nome per tutto. E’ stata questa forse la mutazione, oltre a quella del linguaggio, che lo ha condotto all’antropocene. Fu per lui allora difficile spiegare la morte, la sofferenza, il fuoco, gli eventi ambientali catastrofici e la sua smisurata aggressività; ma anche la bellezza del mondo. L’Homo sapiens apparve sulla terra probabilmente 200.000 anni fa e da allora la cultura, le regole sociali e le religioni, ossia gli strumenti indispensabili per capire il perché delle cose e dotarsi di un ordine sociale, sono lentamente cresciuti e si sono sedimentati. Questo processo non è ancora finito, altrimenti non avremmo ancora le guerre, i reati e l’intolleranza. I nostri antenati con fatica cercavano associazioni tra gli eventi, scrutavano il cielo per trovare una particolare disposizione delle stelle per spiegare diversi fenomeni mentre gli sciamani, in contatto con gli Spiriti, cercavano di prevedere il futuro, di placare l’ira degli Dei e di curare le malattie. Quanti pregiudizi, anche molto bizzarri, si sono accumulati nel corso della storia nella cultura umana. Di esempi se ne possono fare infiniti, ma forse quelli più “didattici” sono la storia del capro espiatorio e quella della peste nera del 1348 in Europa. Il capro espiatorio, descritto nel Levitico della Bibbia, era un’antica tradizione ebraica di addossare ad una capra, il giorno dell’espiazione (Kippur), la responsabilità delle colpe collettive del popolo ebreo e mandarla a morire nel deserto. Nel 1348 la popolazione europea fu quasi sterminata da una epidemia di peste nera: si pensa che morirono 20 milioni di persone, ossia 1/3 di tutta la popolazione europea. La gente era terrorizzata anche per il fatto che non capiva la causa di tutte quelle morti. Ad un certo punto fu data la colpa agli ebrei ed alle streghe, e questo fu forse il primo grande olocausto europeo documentato dalla storia, e l’esempio più drammatico ma eloquente dei bias.
I bias cognitivi sono “costrutti fondati, al di fuori del giudizio critico, su percezioni errate o deformate, su pregiudizi e ideologie: utilizzati spesso per prendere decisioni in fretta e senza fatica” (definizione tratta da State of Mind). I bias appartengono alle euristiche, ossia a quei procedimenti mentali e sbrigativi che adottiamo molto spesso per prendere le decisioni del quotidiano. Bias e euristiche sono l’antitesi del pensiero logico e scientifico. Il metodo scientifico o metodo sperimentale è la modalità tipica con cui procede la scienza per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile. La massima espressione del metodo scientifico sono nelle scienze biomediche gli “studi controllati randomizzati” (Randomized Controlled Trial o RCT).
Tutti i giorni, anzi tutti i minuti, l’umanità è lacerata e vaga fra bias e metodo scientifico. Basti pensare alle infinite discussioni sull’olio di palma, il glifosato, il 5G e la recente pandemia di Coronavirus. Questa “lacerazione” della mente umana la viviamo anche tutti giorni negli allevamenti, dove euristiche e bias si trovano spesso in abbondanza e il metodo scientifico, faticoso e impopolare com’è, fa molta fatica a prevalere. I bias proliferano anche nelle molte categorie di professionisti che supportano gli allevatori, come veterinari, zootecnici, agronomi, avvocati, banchieri e quant’altro.
Il pensiero collettivo “zootecnico”, e non solo, pensa che raccogliere i dati e il benchmark sia l’antidoto alle bias. Altri pensano che il professionista di “chiara fama” oppure solo lo “straniero a prescindere” siano i migliori anticorpi verso questo fenomeno. Probabilmente è tutto vero (tranne lo “straniero a prescindere”) ma forse il migliore antidoto verso le bias sono la triade dati-memoria-cultura e il metodo scientifico. Vediamo alcuni esempio che ci possono aiutare a capire meglio la questione di cui stiamo discutendo. In un recente articolo pubblicato su Ruminantia e intitolato “Le prestazioni prevedibili della frisona” ho riportato alcuni dati elaborati dall’Ufficio Studi di AIA che inequivocabilmente testimoniano come la frisona, ossia la razza di bovine da latte maggiormente allevata nel mondo, abbia un comportamento produttivo prevedibile (dati) che si ripete nello stesso modo tutti gli anni (memoria). I dati italiani, europei, russi, statunitensi e cinesi, quindi dell’emisfero boreale, testimoniano che la massima produzione di latte si verifica in primavera e la minima in autunno, a prescindere dai giorni medi di lattazione; che i parti, ove non siano stati programmati, si concentrano in autunno; che in inverno sia ha la massima concentrazione di grasso e di proteine del latte e quella minima di cellule somatiche e urea; che le vacche ormai preferiscono rimanere gravide dalle fine dell’autunno a tutta la primavera e che le malattie metaboliche hanno un chiaro andamento stagionale. Per poter conoscere l’andamento della produzione, della fertilità e delle malattie del proprio allevamento basta registrare i dati, è inoltre importante confrontarsi con le altre aziende. La mancanza di tempo, il dare la priorità ai lavori “manuali” e i grandi vantaggi commerciali dati dall’utilizzo dei bias li fa proliferare negli allevamenti. Modificare una razione a Dicembre o a Gennaio per fare più latte fa fare sempre una bella figura, che diventa pessima se ciò si fa a settembre o ad ottobre. Adottare un additivo che migliora la fertilità a Novembre lo fa sembrare miracoloso mentre lo fa sembrare inutile adottarlo in estate. Preda dei bias è la produzione elevatissima delle stalle di frisone in questi giorni, sicuramente di molto superiore agli stessi mesi degli anni precedenti. Prima le stalle che facevano 40 kg di media erano considerate “fenomeni”, ora ce ne sono veramente tante che lo fanno e che conservano anche i “titoli”, ossia la percentuale di grasso e proteina. Spiegare questo fenomeno non utilizzando il metodo scientifico è veramente complesso e la tipica bias è attribuire questo successo ad aver finalmente “azzeccato” la razione giusta o il giusto mangime. Ma anche se le bias cognitive sono confortanti, esse possono essere causa di grandi problemi nella gestione di un allevamento, per l’esercizio di una professione o nel progettare prodotti, per pochi semplici motivi. Il primo è che quando si presenta un vero problema, solo il metodo scientifico permette di non procedere a tentativi, sistema che il più delle volte porta ad una maggiore confusione invece che a risolvere i problemi. Avere pregiudizi o farsi idee senza chiedersi il perché delle cose fa fare sempre scelte sbagliate e costose. E’ anch’esso un pregiudizio pensare che il metodo scientifico e il suo rigore siano lenti e faticosi. Potere scegliere i fornitori e i consulenti utilizzando i dati, ma solo se correttamente elaborati, e valutare i beni strumentali adottati con rigore e razionalità è forse l’unico modo di trarre il massimo profitto da un’attività e farla durare nel tempo.
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