E’ innegabile che stia crescendo nella gente la consapevolezza del fatto che le attività umane stanno danneggiando forse irreversibilmente il nostro pianeta con gli effetti inquietanti dell’aumento della temperatura, dell’inquinamento e del depauperarsi delle risorse. Questo allarme, lanciato da una comunità scientifica unanime nei giudizi, è stato dapprima recepito dai giovani e dalle fasce più colte della popolazione per poi ormai estendersi a tutti. Ci sono frange di “negazionisti” identificabili in personaggi che non hanno alcun interesse per le successive generazioni o nei quali l’interesse privato prevale nettamente su quello della collettività. Viste le impopolari misure da prendere per ridurre le emissioni di gas serra (GHG) sono pochissimi i politici che hanno il coraggio di andare in deroga temporanea alla loro perenne campagna elettorale per prendere seri e rapidi provvedimenti.
Si é appena concluso il COP 24, conferenza sul clima che si è svolta a Katowice, in Polonia, e che ha coinvolto 196 Stati con l’obiettivo di trovare un’intesa concreta per ottemperare all’accordo di Parigi del 2015, anche se sarebbe stato auspicabile andare oltre. Pochi gli accordi condivisi a causa della presa di distanza di USA, Russia, Arabia Saudita e Kuwait e del negazionismo del Brasile, in bilico tra sub-cultura e i potenti interessi delle lobby del petrolio.
COP24 si sta occupando solo del surriscaldamento del pianeta, ma ci sono altri ambiti in cui si sta discutendo di antibiotico-resistenza, d’inquinamento, di depauperamento delle risorse e della crescente difficoltà di trovare terra coltivabile dove produrre cibo.
Si sa che la politica e la diplomazia hanno tempi lunghi, e che quelle che vengono denominate “multinazionali locuste” hanno un grosso peso sulle decisioni strategiche e tattiche globali. Inoltre, come quasi sempre accade, se la casualità e la meritocrazia vogliono che tra i leader mondiali ci siano persone di alto carisma e alta caratura morale le cose possono prendere accelerazioni inaspettate. In questo momento però pare che non sia così.
La gente deve fare la sua parte, perché ridurre le emissioni di gas serra, lo spreco alimentare e gli inquinanti passa necessariamente attraverso uno profondo cambiamento dello stile di vita di ognuno di noi. Chi del mondo produttivo è più lungimirante deve dare alla gente che vuole fare la sua parte la possibilità di farlo.
L’integrità ecologica del nostro pianeta va preservata e con essa la possibilità di fornire ad una popolazione in rapida crescita cibo abbondante, sano, sicuro e per tutti.
In questo contesto, l’agricoltura, e nello specifico le aziende agricole, può fare molto, concretamente e subito, dettando anche “l’agenda” ai fornitori.
Prendiamo come esempio un allevamento di bovine da latte che magari “ingrassa” i maschi per destinarli alla produzione di carne. Abbiamo spesso ricordato che i ruminanti hanno un profondo senso ecologico in quanto sono in grado di trasformare in latte e carne alimenti che l’uomo non può utilizzare, come le fibre, l’azoto non proteico e i tanti sottoprodotti dell’industria alimentare. I ruminanti competono con l’uomo nell’utilizzo degli alimenti solo per il mais. L’uso “razionale” di questo cereale nelle diete dei ruminanti è una strada che molti nutrizionisti stanno già percorrendo e la sua coltivazione ha un profondo senso ecologico. La coltivazione della pianta del mais è infatti quella che ha la più alta resa, ha un’elevata capacità di consumare CO2 e, se si usano razionalmente gli agrofarmaci e le risorse idriche, ha profonde argomentazioni ecologiche.
L’industria mangimistica ha la possibilità di giocare un ruolo fondamentale in questo nuovo scenario. Dai tanti sottoprodotti utilizzabili nell’alimentazione animale essa può formulare mangimi che praticamente diano risposte alle regole dell’economia circolare. La capacità analitica delle materie prime e la conoscenza dei fabbisogni nutritivi degli animali possono accompagnare rapidamente e concretamente gli allevatori verso questa riconversione. Inoltre, l’industria che produce alimenti e additivi zootecnici può applicare e trasferire agli allevatori gli ormai noti principi della nutrizione di precisione, che consiste nel somministrare agli animali solo la quantità indispensabile di nutrienti, con evidenti giovamenti per la loro salute e per l’ambiente. Lo stesso si può dire per chi produce additivi zootecnici che, unitamente ai costruttori di stalle e attrezzature, può contribuire sostanzialmente al miglioramento della qualità della vita degli animali, unico pre-requisito per ridurre all’indispensabile l’uso dei farmaci. L’industria della genetica è forse quella che si sta muovendo più concretamente e rapidamente mettendo a disposizione riproduttori selezionati per essere più efficienti nell’utilizzare le risorse nutritive, meno inquinanti e naturalmente più resistenti alle malattie. Gli allevamenti inoltre possono diventare importanti unità di produzione di energia elettrica e termica. Le ampie superfici coperte delle stalle e degli annessi possono infatti ospitare impianti fotovoltaici e i liquami degli animali alimentare impianti di produzione di biogas. Per fare qualche esempio. Una stalla di 200 bovine in lattazione con area di riposo a cuccette ha una superficie coperta di circa 1500 m2. Può utilizzare il 50% di questa superficie per ospitare un impianto fotovoltaico anche di 500 m2. Un metro quadrato di pannelli può produrre circa 230 KWh di energia elettrica. 200 bovine in lattazione consumano circa 60.000 kW all’anno per cui il bilancio energetico sarebbe sicuramente positivo. Lo stesso si può dire per l’adozione d’impianti di biogas che utilizzino solo liquami la cui produzione viene convertita in energia termica e in energia elettrica. Un allevamento di 200 bovine può alimentare sicuramente un impianto a solo liquame di 40 kW. Utilizzando l’accortezza di coprire le vasche di stoccaggio del liquame, e magari costruendo le stalle a compost barn, la produzione dei gas serra si riduce al minimo, come anche la quantità di liquame da disperdere nei campi.
Allevamenti dotati di impianti fotovoltaici, di solare termico e biogas producono più energia di quanto ne consumano e quindi contribuisco sostanzialmente alla riduzione dell’utilizzo degli altamente inquinati combustibili fossili. La produzione di cibo per l’uomo in questo modo non solo sarebbe sostenibile ma avrebbe un bilancio energetico positivo.
Quando un consumatore mangia carne e latte prodotti da questi allevamenti, non solo non consuma energia ma contribuisce a fornirla alle altre attività umane.
Certamente, gli allevamenti che adottano i principi dell’economia circolare, la nutrizione di precisione e l’uso razionale dei farmaci non possono partecipare alla “gara” dell’economia di scala e quindi alla produzione di latte e carne “commodity”. La sostenibilità economica di queste produzioni passa attraverso il sostegno economico dei consumatori, disposti a pagare di più per latte e carne proveniente da questi allevamenti. Se la politica vuole effettivamente dare un contributo pratico e sostanziale alla salute del pianeta e combattere le povertà attraverso la PAC e i PSR, deve creare le condizioni affinché le aziende agricole possano adottare stili virtuosi.
Il titolo di questo editoriale non vuole parafrasare il nome dell’audiolibro in cui si racconta la vita di Monsignor Giovanni Nervo, fondatore della Caritas italiana, ma stimolare la riflessione sul fatto che i grandi cambiamenti spesso partono da piccoli e concreti fatti. Il cittadino-consumatore attraverso le sue scelte d’acquisto e il suo farsi sentire nella rete e nelle piazze può dare un contributo sostanziale alla salvezza del nostro pianeta.
Le aziende agricole che scelgono di dare un contributo sostanziale alla produzione sostenibile di cibo e di energia e alla valorizzazione dei molti scarti che l’industria alimentare produce dovrebbero essere in particolar modo retribuite.
Noi di Ruminantia le abbiamo chiamate le Stalle Etiche.
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