Il fatto che molti allevamenti di ruminanti, piccoli o grandi che siano, stiano chiudendo non è una cosa buona per una nazione. Gli ultimi fatti ci avrebbero dovuto insegnare che è saggio puntare all’autosufficienza nella produzione primaria, non ovviamente auspicando la chiusura delle frontiere, visto che buona parte della nostra economia si regge sull’export, ma rendendo più efficiente la nostra capacità produttiva agricola e zootecnica.
Dovremo anche aver capito che ormai l’agricoltura non può sottostare alle leggi del mercato e che la sicurezza alimentare, intesa come garanzia di accesso al cibo per tutti, è il principale asset strategico di uno Stato.
L’Unione europea fin dalla nascita si è dotata di una Politica Agricola Comune (PAC). Le finalità erano, e lo sono ancora, il sostegno all’incremento della produttività, l’assicurare agli agricoltori un tenore di vita equo, lo stabilizzare i mercati, il puntare alla sicurezza degli approvvigionamenti e garantire prezzi equi ai consumatori. Nel 2021 l’Unione europea ha messo a disposizione dell’agricoltura 55 miliardi di euro, che rappresentavano il 33.1% del bilancio dell’Europa a 27 Paesi. Ma non va dimenticato che tale dotazione economica era negli anni ’80 di ben il 66%.
In questi ultimi anni molte cose sono cambiate, e la riduzione di alcune produzioni agricole e la chiusura di troppe aziende stanno a significare che qualcosa non sta funzionando.
Rimanendo nell’ambito dell’area di interesse di Ruminantia, alcuni fatti che stanno accadendo ormai da diverso tempo all’interno delle filiere del latte e della carne da ruminanti ci impongono di riflettere su quali siano le urgenze da risolvere.
Secondo quanto elaborato dalla nostra Banca Dati Nazionale, nel periodo compreso tra il 31/12/2009 e il 30/06/2022 in Italia hanno cessato l’attività il 77.2% degli allevamenti di vacche da latte, il 37.6% di quelli di bovini da carne, il 38% di quelli bufale, il 17.2% di quelli ovini e il 3.8% dei caprini. Relativamente alle consistenze degli animali, nel periodo considerato abbiamo perso il 5.6% di capi bovini (da latte e da carne). Per le altre specie la situazione è molto differente. Il patrimonio di capi bufalini è aumentato del 25.1%, quello ovino del 28.3% e quello caprino del 51.7%.
Una lettura asettica di questi dati porterebbe a concludere che gli allevamenti stanno chiudendo ma i capi non bovini stanno aumentando la loro numerosità. Le avverse situazioni climatiche dovute al surriscaldamento del pianeta, gli elevatissimi costi e la ridotta reperibilità degli alimenti zootecnici, e la progressiva crescita dei costi energetici e delle attrezzature e ricambi hanno messo a dura prova specialmente gli allevamenti di bovine da latte, e soprattutto quelli con minore disponibilità di foraggi e concentrati autoprodotti. Gli incrementi dei costi di produzione del latte, iniziati già nei primi mesi della pandemia, e per lo più a base speculativa, non hanno immediatamente condizionato il prezzo del latte alla stalla. Ancora non esiste un meccanismo di indicizzazione che lega i costi di produzione con il prezzo di cessione del latte, nonostante sia chiaro, come ho in precedenza affermato, che la produzione primaria non può vedere condizionata la sua attività dalla semplice legge del rapporto tra domanda ed offerta. La politica adottata in Italia, sostanzialmente da tutti, è stata quella dell’attesa e della speranza in tempi migliori, e questo ha causato un indebolimento della situazione economica delle aziende agricole e zootecniche, e in molti casi un preoccupante aumento di indebitamento nei confronti dei fornitori.
Non ho visto significative azioni di contrasto, soprattutto perchè non esiste un efficiente e condiviso metodo di monitoraggio dei costi di produzione del latte e un indice che monitorizzi la redditività per aree omogenee italiane.
Come abbiamo scritto in un articolo dal titolo “La storia dell’isola di Pasqua e la storia del latte”: si dice che i nodi vengono al pettine, e al pettine sono arrivati!
Giungono notizie frammentarie, che a volte è anche difficile verificare, di importanti latterie che stanno sospendendo le produzioni di particolari linee di prodotti, di supermercati in cui sono apparsi cartelli di scuse perché manca latte sugli scaffali, e addirittura che Codacons abbia fatto un esposto alla Procura della Repubblica sul perché sia aumentato il prezzo al pubblico del latte alimentare e se questo sia stato equamente distribuito anche alla produzione primaria.
Abbiamo provato a documentarci su questi fatti ma abbiamo trovato un’inspiegabile reticenza da parte di molti degli interessati. Nel web è una rincorsa di news catastrofiche sul fatto che di latte in Italia non ce n’è abbastanza, che sono ben cavalcate da chi vuole speculare sulle cattive notizie. Di converso, abbiamo riscontrato disinteresse verso i reali numeri del problema e di fatto nessuna proposta pratica e operativa sul come gestire questa situazione figlia dell’improvvisazione. Non vediamo neanche nessuna azione concreta di dialogo con un’opinione pubblica sempre più critica nei confronti degli allevamenti e sempre più benevola verso il cibo artificiale.
Credo che a fronte di questa situazione grave e complessa, che sta mettendo a repentaglio le produzioni agricole del nostro paese e la sicurezza alimentare intesa come approvvigionamento di cibo a tutte le fasce della popolazione, il nuovo governo dovrebbe costituire una task force operativa e con ampie deleghe che coinvolga non i politici ma gli esperti di settore, per trovare in tempi brevi le dovute soluzioni. Sarà poi compito della politica condividerle e finanziarle, e presentarle a Bruxelles per i dovuti passaggi istituzionali.
Avremmo sinceramente preferito che nel cambio di nome del Ministero dell’agricoltura, che per ignote ragioni ogni governo fa, invece di “sovranità alimentare” fosse stata inserita “sicurezza alimentare“, un termine non propagandistico ma tecnico e facilmente comprensibile a tutti.
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