Dire allevamento intensivo è diventato ormai sinonimo di profonda negatività, di sofferenza degli animali e di insostenibile impatto ambientale. Nell’immaginario collettivo si associa questa definizione alle catene di montaggio, così ben rappresentate nel film di Charlie Chaplin “Tempi moderni” dove l’uomo è inserito, ed è parte, di un ingranaggio produttivo infernale. L’antitesi dell’allevamento intensivo è, sempre nel sentire collettivo, quello estensivo, che a sua volta ha come stereotipo il “modello altoatesino”, fatto di luce tersa, aria fresca e pascoli paradisiaci dove mucche felici convivono con “contadini” che hanno raggiunto un apparente Nirvana.
L’ambiente incontaminato dei piccoli borghi e delle comunità montane è nella stragrande maggioranza dei casi vissuto dai turisti nel breve periodo delle vacanze estive. Il resto dell’esistenza della maggior parte di loro è trascorso, per scelta o per necessità, nelle città, soprattutto quelle grandi, che offrono lavoro e protezione dalla parte “maligna” della natura. Quello che la città non può offrire lo si ricerca nei brevi periodi di ferie. Non credo siano pochi quelli che hanno pensato, durante l’ozio vacanziero, di lasciare la città per vivere al mare e in montagna, magari inventandosi un lavoro e riducendo le pretese consumistiche. Sono però pochi, o anche pochissimi, quelli che hanno il coraggio di farlo. I più, al termine delle vacanze tornano mestamente, ma molto razionalmente, a vivere in città dove aria inquinata, sovraffollamento e aggressività imperversano; ma il senso di protezione che offrono è impagabile. Quelli che invece nei giorni di ferie “contro il logorio della vita moderna” analizzano non solo i pro ma anche i contro della realtà della gente non cittadina che vive di turismo, artigianato, agricoltura e allevamento rurale, diventano consapevoli di quanto sia dura e difficile la vita di questi “eroi”. Gli scenari paradisiaci dei luoghi di vacanza sono di breve durata nel corso dell’anno. Il resto del tempo è fatto in molti casi di avverse condizioni climatiche e di isolamento. Non a caso buona parte delle zone di “svago”, tranne quelle marittime, sono ubicate nelle aree interne o marginali, ossia lontane dai servizi anche essenziali come la sanità e la scuola.
Trovo una profonda analogia tra gli allevamenti intensivi e le città. In comune hanno che sono popolati dalla maggioranza degli animali d’allevamento e della popolazione, rispettivamente, e che sono entrambi luoghi ideati per agevolare la produttività lavorativa e l’accesso ai servizi, e garantire un livello di benessere e di welfare accettabile. Le città, specialmente quelle più popolose, e i grandi allevamenti, evocano sensazioni negative, perché sia gli uomini che gli animali che li abitano devono lavorare spesso anche duramente per vivere, riprodursi e fare una “vita degna di essere vissuta”. Gli uomini hanno organizzato le loro società per arrivare a morire di vecchiaia, evenienza che molto difficilmente si riscontra in natura, dove la morte è causata da malattie e predatori. Negli allevamenti intensivi si muore alla fine della cosiddetta vita produttiva, perché il lavoro che svolgono gli animali è quello di produrre cibo. Le belle sensazioni che si provano in vacanza sono un artefatto. Gli individui in natura, uomini o bestie che siano, sono assoggettati alla volontà della specie, che in primis impone la riproduzione e la difesa della prole. Il calo della natalità che sta causando addirittura la riduzione della popolazione nella maggior parte delle nazioni occidentali, nonostante il flusso migratorio, è il primo sintomo di malessere, ed è lo stesso parametro che i professionisti utilizzano per verificare il più oggettivamente possibile la qualità della vita nelle stalle.
Gli allevamenti così detti intensivi e le grandi città assicurano ai loro abitanti un tipo di welfare molto standardizzato, che gli permette la maggiore produttività possibile e una buona capacità di consumare sia beni voluttuari che cibo. Quando l’opinione pubblica e le associazioni animaliste si scagliano contro gli allevamenti intensivi, evocando spesso o l’estinzione degli animali d’allevamento, con buon pace per le specie, o la trasformazione in allevamenti estensivi, se sono in buona fede dovrebbero fare delle analogie con le società umane e chiedersi con profonda onestà intellettuale cosa veramente sarebbe meglio per gli uomini e per gli animali. Il cosiddetto “ritorno alla natura” è da loro evocato e auspicato ma senza chiedersi se è quello che gli individui umani e gli animali vogliono veramente.
Il passaggio dalla vita semi selvaggia delle tribù dei cacciatori raccoglitori alla vita stanziale, dapprima dell’uomo agricoltore-allevatore poi completato con lo sviluppo industriale, è avvenuto non su una base di una raffinata progettazione ma per selezione naturale e per evoluzione culturale, perché è prerogativa dell’uomo cercare di migliorare costantemente la qualità della sua vita.
La locuzione latina “in medio stat virtus” stimola a ritenere che il giusto stia nell’equilibrio e non negli eccessi. Il modello delle città e delle fabbriche dove ottimizzare la produttività del dipendente e dello spazio è il principale paradigma oggi universalmente condiviso, al pari del modello dell’economia di scala e della massima produttività che ha permesso di costruire i moderni allevamenti. Forse questa certezza sta invecchiando. La visione del lavoro e della qualità della vita delle nuove generazioni sta mettendo in difficoltà le aziende, sia pubbliche che private, nel trovare risorse umane. Anche il mito del posto fisso pubblico sta cedendo ai nuovi valori.
Gli allevamenti intesivi, di fatto, producono latte e carne che segue le logiche delle commodity. Questi prodotti, con i loro prezzi e qualità, esisteranno sempre, perché una parte importante della popolazione mondiale attraverso il cibo si affranca dalla fame e dalla povertà, e per questo cerca merci abbondanti, standardizzate e a basso costo. I consumi dei prodotti di origine animale sono in calo da diversi anni nelle fasce più agiate della popolazione mondiale mentre sono in crescita nella restante parte dell’umanità. L’allevamento rurale stile “Heidi” non è però il modello alternativo a quello intensivo, perché non si può abusare all’infinito dei pregiudizi spesso basati sull’ignoranza.
Una terza via e un nuovo tipo di allevamento è possibile. Quello che deve affiancare l’intensivo, come è oggi immaginato, non è l’allevamento rurale delle zone interne modello naif ma sono gli allevamenti anche grandi (ma non grandissimi), dove viene garantito il diritto degli animali di fare una vita la più simile a quella che avrebbero fatto in natura, al netto degli inconvenienti della vita selvaggia. Chi s’indigna, senza riflettere a fondo, pur essendo forse in buona fede a patto che abbia una sufficiente dotazione di anticorpi nei confronti dei pregiudizi, deve essere intellettualmente onesto nel credere profondamente che, ad eccezione di pochi individui, l’uomo non riuscirebbe più a vivere allo stato selvaggio e a sottomettersi alla sua apparentemente spietata regola del “sopravviva il più adatto”. Allo stesso modo, e con lo stesso equilibrio, deve essere assolutamente convinto che neanche gli animali addomesticati vorrebbero ritornare ad essere selvaggi, specialmente se sono delle prede. Allevamenti e città più vivibili che siano in grado di generare benessere economico e sociale sono possibili, e neanche in maniera così tanto difficile. Pur non volendo essere banale, penso che per un’evoluzione delle città e degli allevamenti basterebbe dare più spazio sia agli animali che agli uomini, rendendo questi ambienti più “vivibili” e paradossalmente anche più produttivi. Un’alternativa a tutto ciò è continuare questo logorante braccio di ferro tra animalisti e allevatori che non sta portando ad alcuna soluzione se non quella di far crescere i consumi dei cibi artificiali e i guadagni delle multinazionali che li producono a scapito della vera agricoltura e zootecnia. Un passo concreto di avvicinamento tra le parti, e un passo indietro per entrambi, potrebbero dare un colpo mortale alla disinformazione che sta ormai da anni soffiando sul fuoco di questa crociata contro gli allevamenti così detti intensivi, che tanto piace alle multinazionali del cibo artificiale e agli “scienziati” con esse collusi.
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