La scoperta degli antibiotici è stata una conquista che ha cambiato radicalmente la storia dell’essere umano. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale e la convinzione che le malattie infettive potessero essere definitivamente sconfitte ha ben presto ceduto la strada alla drammatica constatazione che lo sviluppo di nuove sostanze antibiotiche si accompagna sistematicamente all’emergenza di patogeni antibiotico-resistenti sempre più numerosi. Oggi, la comunità scientifica ha deciso di non continuare ad immettere nuovi tipi di antimicrobici per l’uso clinico ammettendo, di fatto, la nostra vulnerabilità rispetto a questa problematica.

L’antimicrobicoresistenza ha ostacolato, sin dalla loro scoperta, il progressivo sviluppo degli antibiotici. È una storia affascinante che parla di quanto l’estremamente piccolo (i batteri) abbia tenuto testa nel corso degli anni, alla grandiosità dell’intelletto umano.

Paul Ehrlich, il microbiologo tedesco considerato il padre della chemioterapia, osservò per primo che nelle infezioni da tripanosoma talvolta emergevano microrganismi che erano resistenti alla molecola chimica utilizzata per la terapia; notò poi che la resistenza non era generica bensì specifica, nel senso che quel determinato ceppo risultava resistente solo nei confronti di una molecola (es. fucsina) e non di altre (es. composti all’arsenico). Infine, osservò che tale resistenza, una volta acquisita, poteva essere trasmessa geneticamente e quindi ereditata. Egli parlò nel 1908 di una presunta “riduzione dell’affinità dei chemiorecettori tali da non essere più così affini per una determinata sostanza”. In realtà non esiste alcun chemiorecettore, oggi sappiamo che ci sono dei “target” verso cui i chemioterapici svolgono la loro funzione ma il merito di Erlich rimane quello di avere intuito uno dei principali meccanismi della chemioresistenza: la modificazione del target.

Di lì a poco, nel 1919, Neuschlosz descrisse la capacità del Paramecium caudatum di resistere al chinino attraverso l’acquisita capacità di inattivarlo. Scoprì in questo modo un altro importante meccanismo dell’antimicrobicoresistenza, cioè l’inattivazione della sostanza. Assodata la capacità da parte dei microrganismi di resistere ad alcune sostanze furono distinti due tipi di resistenza: 1) naturale e 2) acquisita. La resistenza naturale era quella per cui alcuni batteri erano naturalmente resistenti verso determinate sostanze come, ad esempio, la resistenza innata dei batteri Gram negativi all’antisettico violetto di genziana al quale erano, invece, molto sensibili i batteri Gram positivi. Si riconobbe poi l’esistenza di uno spettro di azione più o meno ampio a seconda del tipo di agente antimicrobico e questa resistenza naturale fu all’inizio attribuita alla presenza di una barriera esterna alla membrana cellulare. Oltre alla resistenza naturale venne presto riconosciuta anche una resistenza acquisita, caratterizzata dalla insensibilità, espressa più o meno improvvisamente, di un microrganismo ad una particolare sostanza che fino a quel momento aveva dimostrato di essere efficace.

In passato, come al giorno d’oggi, l’ambiente ospedaliero era il luogo di elezione per l’evidenziazione di tale fenomeno. La modalità con cui tale resistenza acquisita potesse avvenire ha caratterizzato un vivace scontro tra Nägeli e Kock. Nägeli era convinto dell’essenza polimorfica dei microrganismi e della loro possibilità di modificarsi spontaneamente dal punto di vista biochimico e morfologico mentre Kock era un fermo sostenitore della realtà monomorfica dei batteri che quindi esprimevano caratteristiche e proprietà fisse e immutabili. Tra il 1920 e il 1930 si andò affermando la teoria della “dissociazione batterica” secondo la quale alcune proprietà dei batteri quali la forma, le caratteristiche biochimiche e antigeniche, la virulenza ecc. non sono immutabili ma cambiano in base al ciclo vitale della coltura batterica. In base a questo principio, l’antimicrobicoresistenza sarebbe una ulteriore manifestazione della “dissociazione batterica”. Nägeli, a quanto pare, aveva ragione, ed il dibattito si spostò sulla discussione se la resistenza acquisita fosse il frutto di una risposta adattativa alla presenza della sostanza oppure l’effetto della selezione a partire da una popolazione batterica minoritaria preesistente e geneticamente già resistente. L’ipotesi della resistenza acquisita adattativa fu corroborata nel 1940 dagli studi di Hinshelwood che riuscì a selezionare diverse popolazioni di batteri resistenti attraverso colture seriali contenenti concentrazioni crescenti di sostanze inibenti. Una decina di anni dopo, nel 1950, Lederbergs dimostrò l’esistenza di ceppi di Escherichia coli resistenti alla streptomicina anche se questi batteri non erano mai venuti a contatto con l’antibiotico in questione. Anche l’ipotesi dell’esistenza di popolazioni batteriche geneticamente resistenti in modo predefinito venne quindi validata.

Prima che la penicillina fosse clinicamente disponibile si faceva ampio uso dei sulfamidici, anche a scopo profilattico, e le conseguenze nefaste di un uso su larga scala non tardarono a manifestarsi. Durante la Seconda Guerra Mondiale la somministrazione giornaliera di sulfadiazina con lo scopo di prevenire le infezioni respiratorie dei soldati al fronte era una pratica diffusa ma fu seguita dall’emergenza drammatica ed esponenziale di ceppi di streptococchi β-emolitici resistenti e fu una carneficina. Le segnalazioni di resistenza si moltiplicarono anche in altre specie di batteri come Neisseria gonorrhoeae, responsabile della sifilide, e Shigella somnei, responsabile della dissenteria bacillare. Il meccanismo di resistenza fu inizialmente identificato nella maggiore produzione dell’acido paraminobenzoico (PABA) come risposta alla presenza del sulfamidico; tuttavia, oggi sappiamo che questo è solo uno dei meccanismi di resistenza ai sulfamidici.

L’uso clinico della penicillina fu funestato dall’emergenza quasi immediata di antibioticoresistenza soprattutto per le infezioni sostenute da Staphylococcus aureus. Nel 1944 la causa venne identificata nella produzione di β-lattamasi, un enzima prodotto dai batteri ed in grado di inattivare le penicilline. L’Hammersmith Hospital di Londra isolò ceppi di Staphylococcus aureus penicillina resistenti in misura del 14% nel 1946, 38% nel 1947 e 59% nel 1948. Intorno agli anni ’50 fu individuata e descritta la resistenza ad altri antibiotici. Poco dopo la scoperta di nuove classi o molecole, i fenomeni di antimicrobicoresistenza non tardavano a manifestarsi ed essere segnalati.

L’evento che rivoluzionò lo studio dell’antimicrobicoresistenza fu la scoperta dei plasmidi-R in Giappone nel 1959. In realtà già Hotchkiss nel 1951 aveva dimostrato che la resistenza alle penicilline poteva essere trasferita ad uno pneumococco sensibile da parte di uno pneumococco resistente, ma occorsero molti anni prima che fosse compresa la portata di questa scoperta. I plasmidi sono dei piccoli frammenti circolari di DNA presenti nel citoplasma dei batteri e separati dal cromosoma. Le funzioni svolte dai plasmidi non sono essenziali ma conferiscono ai batteri delle proprietà speciali e quando veicolano i geni codificanti per la antibioticoresistenza si definiscono plasmidi-R. La caratteristica più importante dei plasmidi è quella di poter essere trasportati da un batterio ad un altro, non solo tra batteri della stessa specie ma addirittura di generi e famiglie differenti a patto che siano filogeneticamente affini.

Il quadro dell’acquisizione della resistenza e la sua diffusione si completò nel 1974 con la scoperta dei trasposoni. I trasposoni sono degli elementi genetici in grado di spostarsi da una posizione ad un’altra del genoma. Negli eucarioti si possono spostare in posizioni diverse dello stesso cromosoma oppure su cromosomi differenti mentre nei procarioti (batteri), oltre che all’interno dell’unico cromosoma che essi possiedono, si possono spostare anche sui plasmidi o sui fagi (virus dei batteri). Il significato evoluzionistico dei trasposoni è quello di favorire la variabilità genetica determinando una graduale diversificazione dei genomi e quindi, nel tempo, le manifestazioni fenotipiche degli stessi organismi. Questo principio applicato ai batteri amplifica progressivamente la probabilità che i geni codificanti l’antimicrobicoresistenza possano selezionarsi, essere condivisi e fissarsi stabilmente nelle popolazioni batteriche.

Negli ultimi decenni l’antibioticoresistenza è stata accettata come un’inevitabile conseguenza dell’uso degli antibiotici. Scoprire sempre nuovi farmaci non è assolutamente proponibile per cui l’unica strada percorribile sembra essere l’adozione di una serie di regole per un uso prudente e razionale dell’antibioticoterapia. A livello legislativo la pressione si fa sempre più forte ma occorre una presa di coscienza globale, secondo i più sani principi dell’approccio One Health, evitando di cercare il capro espiatorio di turno e accettando che tutti noi abbiamo una responsabilità, partendo dal grande allevamento intensivo, passando per gli ospedali fino ad arrivare all’armadietto dei farmaci delle nostre abitazioni.