La mortalità embrionale è una delle maggiori fonti di perdita economica nell’allevamento della bovina da latte ed è uno dei principali fattori responsabili del declino della fertilità. Mentre il tasso di fertilizzazione degli oociti, dopo una inseminazione artificiale (IA) eseguita nei tempi, nei modi e con del seme adeguati, risulta essere sempre molto alto (75-83% vacche in lattazione e 90-98% manze e bovine da carne), il tasso di concepimento è altrettanto elevato (60-70%) solo nelle manze e negli animali poco produttivi (vacche da carne). Considerando che l’incidenza delle mortalità fetali e degli aborti è solitamente compresa tra il 7 e il 20%, risulta evidente che l’incidenza della mortalità embrionale è il fattore principale di attrito della gestazione.

La definizione di embrione comprende il periodo di tempo che va dal concepimento al completamento del processo di differenziazione tissutale che nel bovino avviene a circa 45 giorni di gestazione. La mortalità embrionale viene definita precoce quando si verifica prima che l’embrione abbia avuto il modo di attuare il meccanismo di riconoscimento della gravidanza (prima del 14°-15° giorno del ciclo) ed essa è clinicamente inapparente, in quanto non modifica la durata del ciclo estrale e la data del ritorno in calore della bovina. Secondo alcuni autori la sua incidenza oscillerebbe nella bovina tra il 20 e il 45%. Nel caso in cui l’embrione venga a morire successivamente alla produzione dell’interferone tau (proteina responsabile del prolungamento della vita del corpo luteo ciclico e della sua trasformazione in gravidico), clinicamente ne consegue un ritardo nel ritorno in calore proporzionale al periodo di sopravvivenza dell’embrione stesso; quindi i ritorni in calore compresi tra 25 e 38 giorni sono spesso dovuti a mortalità embrionale tardiva. In altri termini, la mortalità embrionale precoce è quella compresa entro 15 giorni circa dall’inseminazione mentre quella tardiva va da 16 a 45 giorni di gestazione. Nella pratica buiatrica, tuttavia, il limite clinico per la determinazione della mortalità embrionale è quello compreso tra la visualizzazione ecografica della gestazione (25-28 giorni) e i 45 giorni, con un’incidenza di solito compresa tra il 5 e il 18%. Di conseguenza, tutte le mortalità embrionali antecedenti le 4 settimane di gestazione circa, sono di difficile studio non avendo degli strumenti sufficientemente accurati per la loro caratterizzazione. Tuttavia, sia il confronto dei dati statistici riproduttivi relativi ad animali ad elevata produzione di latte e manze o ad animali scarsamente produttivi, sia le ricerche sulla vitalità degli embrioni raccolti in vivo da animali ad alta o bassa produzione di latte, dimostrano che la mortalità embrionale precoce è quella più diffusa e che maggiormente incide sull’efficienza riproduttiva della mandria. La percentuale di embrioni vitali raccolti al 7° giorno del ciclo dopo superovulazione da bovine in lattazione è ad esempio inferiore al 50% del totale di embrioni/oociti raccolti.

Tra le cause di mortalità embrionale precoce indubbiamente quelle genetiche e ambientali sembrano avere un ruolo prevalente. In merito alle cause genetiche di mortalità embrionale vanno elencati difetti cromosomici che possono comprendere anomalie della ploidia (relative al numero complessivo dei cromosomi, come trisomie, monosomie, poliploidie) o della loro struttura (traslocazioni, delezioni, inversioni, ecc.); in dipendenza della gravità del difetto essi possono essere associati a mortalità embrionale precoce o precocissima. In molti casi, infatti, nel momento dell’attivazione del genoma embrionale, che nel bovino avviene allo stadio di 8-16 cellule, l’embrione muore per gravi carenze trascrizionali. Alcune cause genetiche di incremento della mortalità embrionale risiedono in difetti di un singolo gene (DUMPS della Frisona); queste sono le più semplici da debellare grazie all’eliminazione dei tori portatori. Molto più difficili da individuare e correggere sono i difetti genetici complessi derivanti da interazioni di più geni, quali ad esempio quelli conseguenti all’incremento della consanguineità. È stato calcolato che ad un incremento del 10% del tasso di inbreeding delle bovine è associato un incremento dell’1-2% del tasso di mortalità embrionale e grossomodo lo stesso si verifica a carico dell’embrione. Nel primo caso per deficit riproduttivi della madre, nel secondo per deficit di sviluppo dell’oocita-embrione. Non è probabilmente un caso che le razze bovine con livelli di consanguineità bassi siano spesso anche caratterizzate da indici riproduttivi migliori. Tuttavia, è personale convinzione dell’autore, che non si debba enfatizzare eccessivamente la genetica quale causa di mortalità embrionale e quindi di ridotta efficienza riproduttiva della mandria. Molto spesso infatti a parità di indici genetici vi sono mandrie che, nonostante livelli produttivi maggiori, hanno indici riproduttivi migliori. Come dire che oltre alla genetica e al livello produttivo, le capacità manageriali dell’allevatore-capo stalla hanno un ruolo molto rilevante. Va comunque ricordato che l’era della genomica sta svelando ogni giorno nuove associazioni tra caratteri genetici e fenotipici, molti dei quali legati alla fertilità. È probabile quindi che nell’arco di alcuni anni, siano approntati piani selettivi volti specificatamente a migliorare anche gli indici di sopravvivenza embrionale; tuttavia la conferma delle associazioni genomiche con un effettivo miglioramento dei caratteri fenotipici richiederà comunque molti anni se non decenni.

Tra le cause ambientali, indubbiamente il livello produttivo della bovina è il fattore maggiormente implicato e ad esso possono sommarsi lo stress termico e i processi infiammatori. Se si comparano infatti i livelli di fertilità delle manze con quelli delle bovine da carne o con le bovine a medio-scarsa produzione, gli indici sono simili; essi peggiorano drasticamente nelle bovine ad elevata produzione di latte. Secondo uno studio effettuato in Wisconsin, la percentuale di embrioni vitali raccolti a sette giorni da bovine in lattazione durante la stagione estiva è inferiore del 54% circa (33 vs 72%) rispetto a quella riscontrata nelle manze, mentre durante l’inverno le vacche in lattazione producono il 35% in meno di embrioni vitali (53 vs 82%) rispetto a quelle non in lattazione. L’effetto dello stress da caldo sulla fertilità degli oociti e sui primissimi stadi di sviluppo embrionale è ben conosciuto ed è facilmente desumibile da molte prove sperimentali e di campo che hanno dimostrato come il trasferimento di embrioni, prodotti in condizioni di termo neutralità, in riceventi mantenute in condizioni di stress termico risulta in tassi di gestazione molto migliori rispetto a quelli che si ottengono con la IA in condizioni ambientali simili. Nei paesi afflitti da condizioni climatiche estive estreme infatti l’impiego dell’embryo transfer al posto della IA è oramai pratica comune e consolidata che si sta diffondendo sempre di più anche da noi.

In merito allo “stress metabolico” legato alla produzione lattea, vi sono evidenze crescenti di interazioni di carattere endocrino, biochimico-clinico e di espressione genica indicanti varie perturbazioni connesse al bilancio energetico negativo tipico della bovina da latte ad elevata produzione. Alcuni autori hanno riprodotto la condizione con dei protocolli alimentari associati ad una perdita di peso vivo e di livello di ingrassamento (BCS), dimostrando che una bovina in fase di dimagrimento manifesta un chiaro deterioramento delle performance riproduttive. La condizione di inquinamento metabolico che si crea nella bovina durante il picco di lattazione comporta un deterioramento dei microambienti del follicolo ovarico, dell’ovidotto e dell’utero cui consegue la maturazione di oociti meno fertili e lo sviluppo di embrioni disvitali che si trovano inoltre a crescere in secreti (ovidotto e latte uterino) con capacità di sostentamento dello sviluppo subottimali. Ne consegue la morte precoce dell’embrione prima della discesa in utero o il suo rallentato sviluppo; in questo caso si osserva incapacità di attivare il meccanismo di riconoscimento materno della gravidanza nei tempi e nei modi fisiologici. Spesso sono stati evidenziati dei ridotti livelli di ormoni steroidei durante la fase follicolare del ciclo (maturazione del follicolo dominante) e nel diestro; si suppone che questo assetto endocrino sia conseguente ad una ridotta capacità steroidogenica delle cellule della granulosa e luteali perché “intossicate” dall’inquinamento metabolico, come anche per un aumento della clearance epatica legata all’accelerato metabolismo mammario. In ogni caso, la conseguenza di questi fenomeni risulta essere il deterioramento dell’ambiente presente nell’apparato riproduttivo femminile. È significativo a tal proposito che il trasferimento embrionale nelle bovine al picco di lattazione riesca spesso ad ottenere migliori risultati rispetto all’IA, anche se in modo meno evidente rispetto alle condizioni di stress termico. L’embrione “eterologo”, non avendo risentito dell’inquinamento metabolico nelle prime fasi di sviluppo, sarebbe più vitale rispetto a quello derivante dalla fertilizzazione di un oocita “intossicato” e che sviluppa in un ambiente oviduttale non adeguato. Risultati ancora più evidenti sono stati ottenuti sperimentalmente impiegando tecniche endoscopiche di trasferimento di embrioni prodotti in vitro direttamente in ovidotto, ancora una volta la percentuale di sopravvivenza degli embrioni è risultata decisamente migliore nelle manze che nelle bovine in lattazione, e nelle bovine non lattanti rispetto a quelle in lattazione; anche in termini di dimensioni e stadio di sviluppo degli embrioni sopravvissuti. Sebbene il progesterone (P4) rappresenti uno dei fattori chiave perché l’apparato riproduttivo femminile sia adeguato per supportare lo sviluppo embrionale, esso non è l’unico e non ha un comportamento lineare. Ad esempio, vi sono sempre maggiori evidenze di come l’insufficiente produzione di P4 nella prima settimana dopo il concepimento sia un fattore di rischio per l’istaurarsi della gravidanza, sebbene l’andamento sia quadratico. Questo significa che al crescere dei livelli di P4 migliorano i tassi di gestazione, ma sino a circa 5 ng/mL; oltre questo valore l’effetto si inverte e livelli maggiori di P4 portano ad un decremento del tasso di sopravvivenza embrionale. La somministrazione di P4 è in grado di incrementare la velocità di sviluppo dell’embrione e la sua elongazione; tuttavia è anche stato ripetutamente osservato, tramite dei trapianti multipli di embrioni e il loro successivo recupero dopo la fase di elongazione, che nonostante l’ambiente endouterino sia lo stesso, alcuni embrioni sono sottosviluppati. Queste osservazioni confermano che esiste una capacità intrinseca dell’embrione di sviluppare indipendentemente dall’ambiente uterino e dai livelli di P4 ematico. Le numerose e recenti indagini trascrittomiche relative ai tessuti embrionali e uterini prelevati durante la seconda-terza settimana di gestazione (fase di elongazione), hanno inoltre evidenziato 2 risultati rilevanti: 1) la trascrizione di molti geni risulta alterata dalla lattazione della madre rispetto ad animali in asciutta o alle manze; 2) esiste un intenso cross-talking tra embrione ed endometrio, che rende obsoleto il vecchio modo di analizzare i due comparti come entità separate (è colpa dell’embrione o è colpa dell’utero?). In modo semplicistico potremmo dire che un embrione di buona qualità è in grado di indurre una risposta uterina adeguata e migliore rispetto ad un “brutto” embrione; allo stesso modo un endometrio in buone condizioni risponde più prontamente agli stimoli dell’embrione ed è parzialmente in grado di compensare dei deficit embrionali. Oltre alla arcinota unità feto-placentare, esisterebbe quindi una “unità embrio-endometriale”. Tentare di scindere questa unità per semplificare l’approccio scientifico può portare a risultati discordanti e parziali, ed è verosimilmente una delle ragioni della complessità della letteratura sull’argomento e della mancanza di un preciso meccanismo eziopatogenetico in grado di spiegare il fenomeno della mortalità embrionale della bovina da latte ad elevata produzione.

I processi infiammatori sia a carico dell’apparato riproduttore (ritenzione placentare e infezioni uterine) che di altri distretti (mastiti e zoppie), sono un ulteriore fattore ambientale che è in grado di compromettere la sopravvivenza embrionale sia indirettamente, aggravando la condizione di bilancio energetico negativo, che direttamente, agendo con tossine e mediatori della flogosi o influenzando i profili trascrizionali sia degli embrioni che dei tessuti materni. Ad esempio, esiste un ben preciso effetto carryover dei processi infiammatori sullo sviluppo follicolare ovarico che è in grado di compromettere la sopravvivenza embrionale anche per 4 mesi dopo la guarigione.

È importante a questo punto ricordare che il passaggio da follicolo primordiale a follicolo secondario nella bovina avviene attorno a 3-4 mesi prima dell’eventuale ovulazione e che durante questo passaggio si verificano alcuni fenomeni rilevanti in grado di influenzare il futuro sviluppo del gamete quali l’inizio della sintesi dell’RNA, la deposizione della zona pellucida, la riorganizzazione dei nucleoli, la formazione dei granuli corticali e soprattutto la formazione delle gap-junction tra l’oocita e le cellule della granulosa che andranno a costituire il cumulo ooforo. Tramite questi processi l’oocita sarà in grado di comunicare con la popolazione cellulare vicina e determinare lo sviluppo del follicolo, nonché di scambiare metaboliti (glucosio, aminoacidi, nucleotidi, ecc.) e cataboliti con il follicolo. Queste funzioni saranno essenziali per la sua corretta maturazione e l’acquisizione della fertilità. Circa un mese dopo (2-3 mesi prima dell’eventuale ovulazione), il follicolo secondario diventerà terziario ed intensificherà l’attività trascrizionale degli RNA, triplicando il volume dell’oocita in esso contenuto e modificando radicalmente la sua struttura (formazione delle 2 teche, compartimentalizzazione delle cellule della granulosa e formazione dell’antro follicolare). Il reclutamento e l’accrescimento del follicolo antrale, che nella bovina è totalmente dipendente dalle gonadotropine, è fortemente influenzato dai fattori metabolici ed endocrini presenti durante questi ultimi 2-3 mesi di sviluppo (IGF, NEFA, glucosio, corpi chetonici, insulina, GH, acidi grassi, colesterolo, solo per citarne alcuni). L’ambiente in cui sviluppa il follicolo influenza pesantemente il suo assetto di recettori per le gonadotropine, la sua capacità steroidogenica e di accrescimento, la funzionalità nucleare dell’oocita e l’accumulo di mRNA e altri componenti citoplasmatici all’interno di quest’ultimo. Questa sintetica e parziale disamina del processo di follicologenesi è funzionale a comprendere per quale ragione degli eventi distanti dei mesi dal momento della IA possono comunque compromettere la sopravvivenza dell’embrione e come interventi effettuati al momento o in stretta prossimità della IA non sempre abbiano l’effetto sperato in termini di sopravvivenza embrionale (somministrazione diretta o indiretta di P4).

In merito ai possibili rimedi finalizzati alla riduzione della mortalità embrionale precoce, la somministrazione del P4 nel periodo post ovulatorio è uno degli approcci maggiormente studiati. Il razionale è quello di regolare la funzione endometriale allo scopo di accelerare l’accrescimento embrionale e migliorare le interazioni endometrio-embrionali, compresi il meccanismo di riconoscimento della gravidanza e la formazione e attecchimento della placenta. A questo si aggiunga che la bovina che produce molto latte ha bassi livelli di P4 e soprattutto gli animali che non rimangono gravidi dopo IA spesso hanno livelli inferiori di P4 nella prima settimana dopo l’ovulazione. L’effetto del progesterone sull’accrescimento embrionale è indubbio ed è stato recentemente dimostrato che questo è legato alla stimolazione dell’endometrio anche in assenza dell’embrione stesso; quindi, la stimolazione precoce dell’endometrio, quando l’embrione si trova ancora in ovidotto (fino al 4°-5° giorno successivo all’ovulazione), aumenterà il supporto che il tessuto offrirà all’embrione non appena arriverà in utero. La somministrazione di P4 in condizioni di campo può essere effettuata direttamente tramite l’uso dei CIDR o di altri dispositivi a lento rilascio del progesterone, oppure indirettamente stimolando la luteinizzazione del corpo luteo o l’ovulazione del follicolo dominante della prima ondata successiva all’ovulazione tramite il GnRH e i suoi analoghi o l’hCG, con una preferenza per quest’ultimo vista la sua maggiore emivita. Tuttavia, le esperienze pubblicate in letteratura esitano spesso in risultati discordanti: a volte si verifica un netto miglioramento degli indici riproduttivi, altre volte non si ha alcun effetto anche all’interno dello stesso esperimento in dipendenza ad esempio della stalla considerata. Indubbiamente, tra i fattori alla base di questa estrema variabilità ci sono le diverse tempistiche e tipologie di trattamento, ma è molto probabile che a beneficiare di un surplus di progesterone possano essere solo quelle gestazioni caratterizzate da un ridotto livello di P4 nella prima settimana dopo l’IA, mentre negli altri soggetti la somministrazione non ha effetto o addirittura potrebbe essere controproducente. Sarebbe interessante verificare con i moderni sistemi di dosaggio in tempo reale del progesterone nel latte, se una somministrazione mirata possa essere associata a un effetto più consistente.

La condizione di bilancio energetico tipica della vacca da latte nelle settimane successive al parto causa un disaccoppiamento dell’asse somatotropo (bassi livelli di insulina, IGF, glucosio, ecc.) che oltre a interferire con lo sviluppo follicolare, la steroidogenesi e a ritardare il ripristino della funzionalità ovarica, interferisce anche con l’ambiente dell’apparto riproduttivo; tutti fattori che aumentano il rischio di mortalità embrionale precoce. Numerose strategie nutrizionali sono state proposte per superare tali carenze, come la formulazione di diete che promuovano la sintesi del glucosio e aumentino le concentrazioni di insulina o che contengano diverse formulazioni di acidi grassi insaturi al fine di sopprimere la sintesi di grassi del latte e ridurre il costo energetico legato alla produzione lattea. Lo stesso impiego di diete durante l’ultima fase di asciutta che mantengano una adeguata calcemia dopo il parto, favorendo l’ingestione e l’involuzione uterina, agiscono positivamente anche sulla mortalità embrionale precoce. Tuttavia, la trattazione in modo specifico ed approfondito di tali tematiche esula dalle nostre finalità presenti.

In conclusione, la mortalità embrionale precoce è un fenomeno piuttosto accentuato nella bovina da latte ad elevata produzione e, come molti altri aspetti produttivi, sanitari e riproduttivi, va considerata come una delle conseguenze di un metabolismo molto intensificato risultato di decenni di selezione genetica e di esasperazione nutrizionale, strutturale e manageriale. L’esistenza di stalle che pur avendo performance produttive eccezionali hanno anche parametri riproduttivi molto buoni, testimonia d’altro canto l’importanza proprio dei fattori manageriali, strutturali e nutrizionali nella corretta gestione dell’atleta metabolico che è la moderna bovina da latte. La pretesa di risolvere il problema della mortalità embrionale, che come abbiamo visto spesso origina mesi prima della sua manifestazione fenotipica, con terapie, “polverine” ed altre strane alchimie è un approccio semplicistico e antropocentrico che non tiene conto della fisiologia della bovina. In una fase storica caratterizzata da una spasmodica attenzione del consumatore al benessere animale e da una patologico ed imperante “web-ebetismo” che confonde i bisogni degli animali con le frustrazioni dell’essere umano, anche il fenomeno della mortalità embrionale precoce può trovare una radicale soluzione nel maggiore rispetto da parte di allevatori e tecnici del settore al vero benessere della bovina da latte, in piena sintonia con il progetto della “Stalla Ideale” che Ruminantia sostiene e diffonde.