La paratubercolosi è una malattia infettiva ad andamento cronico causata da Mycobacterium avium paratuberculosis (MAP) che negli ultimi 100 anni ha assunto una straordinaria importanza a livello planetario. Sebbene si tratti di una malattia complessa, difficilmente controllabile ed in grado di incidere pesantemente sulla redditività delle aziende colpite, la paratubercolosi ha acquisito un forte interesse principalmente a causa del potenziale legame con il morbo di Crohn dell’uomo. A rinforzare la preoccupazione del possibile rischio di sanità pubblica c’è poi il sospetto che la pastorizzazione commerciale (Grant et al., 2012) e la liofilizzazione (Botsaris et al., 2016), pur abbassando pesantemente la carica microbica, non eliminino con sicurezza il MAP dal latte. Detto ciò, il sistema più efficace di protezione della salute pubblica (ma anche dell’industria del latte), applicando il principio di precauzione, si individua nella minimizzazione del rischio di esposizione del consumatore attraverso dei programmi efficaci di contenimento della malattia direttamente in allevamento. In altre parole, se l’industria non può garantirci di eliminare con certezza il batterio dal latte è necessario fornirgli del latte privo di quel tipo di batteri o che ne abbia il meno possibile.
Qualsiasi programma di gestione e contenimento di un’infezione ha bisogno di solide informazioni di natura epidemiologica. Solo conoscendo a fondo il comportamento del “nemico” è possibile combatterlo in modo efficace. I programmi di controllo della paratubercolosi sono stati ormai ben codificati ma le ultime scoperte scientifiche sono state raccolte in un recentissimo articolo di McAloon et al. pubblicato quest’anno sul The Veterinary Journal dal titolo “A review of paratuberculosis in dairy herds – Part 1: Epidemiology” e possono portare un valido contributo per renderli maggiormente efficienti.
L’osservazione empirica secondo cui esista un “fenomeno iceberg” caratteristico degli allevamenti colpiti da paratubercolosi in base al quale per ogni bovina con una forma clinicamente manifesta ci siano 25 bovine infette con forma subclinica è stata messa in discussione (Magombedze et al., 2013) e i soggetti potenzialmente infetti sarebbero un po’ meno. Questo dovrebbe essere un dato incoraggiante in grado di motivare ad intraprendere un programma di controllo anche per quelle aziende che hanno numerosi casi clinici.
L’introduzione della paratubercolosi in allevamenti indenni avviene quasi sempre con l’ingresso di nuovi animali e la dimensione dell’azienda è stata identificata come un significativo fattore di rischio (Vilar et al., 2015; Donat et al., 2016; McAloon et al., 2017). Dal momento che molte nuove aziende nascono dalla fusione di stalle più piccole, la rimonta esterna è ampiamente adottata e il trend generale prevede un aumento progressivo della consistenza numerica delle mandrie si rende necessario adottare un solido programma di biosicurezza a cui attenersi scrupolosamente. Purtroppo resta il punto critico della difficoltà diagnostica dovuto alla “imperfetta” sensibilità dei test di laboratorio normalmente usati; l’incertezza potrebbe essere mitigata dall’adozione di due test contemporaneamente. Aumenterebbe sicuramente la probabilità di avere “falsi positivi” ma nello stesso tempo i “falsi negativi” sarebbero smascherati più facilmente.
La suscettibilità all’infezione dipende dall’età del bovino, questo è un caposaldo dei programmi di controllo della paratubercolosi. La decadenza di suscettibilità segue una curva che prevede un’alta probabilità di contrarre l’infezione nel periodo che va dalla nascita fino ai 6 mesi e una diminuzione progressiva dai 6 mesi ad un anno, dopo il quale il bovino diventa quasi completamente resistente all’infezione. La probabilità di infettarsi è direttamente proporzionale alla dose infettante, sulla cui quantificazione però non esistono ancora dati certi. Tutte le indicazioni derivano da studi sperimentali, spesso incoerenti tra loro (Begg e Whittington, 2008).
Negli ultimi anni si è sviluppato un interesse rivolto al ruolo della resistenza genetica alle infezioni (Berry et al., 2011). Sebbene siano stati identificati numerosi geni coinvolti nella resistenza al M.paratuberculosis, la maggior parte degli studi condotti sono inconcludenti o non concordi (Kiser et al., 2017). Il motivo risiede nella difficoltà di classificare con accuratezza i tratti fenotipici delle popolazioni, tale variabilità inficia la possibilità di ottenere dati solidi da utilizzare negli studi di associazione genome-wide. Questa è comunque una strada particolarmente interessante, molto promettente per il futuro. Gli ultimi studi (Küpper et al., 2012) hanno dimostrato un’ereditabilità stimata superiore a 0,28 nettamente maggiore rispetto a quella precedentemente stimata da Koets et al. nel 2000 che era meno di 0,10.
È di estrema importanza sapere che i bovini infetti non eliminano micobatteri tutti allo stesso modo. Uno studio di Withlock et al. del 2000 individuò che il 71% delle bovine fosse classificabile come low shedder cioè con una ridotta capacità di eliminazione di batteri con le feci (<5 cfu/g), un 10% medium shedder (5/25 cfu/g) e un 19 % high shedder (>25 cfu/g). Negli ultimi anni l’attenzione dei ricercatori si è focalizzata sui cosiddetti soggetti super-shedders, bovini infetti in grado di eliminare quantità straordinarie di micobatteri (>10⁷cfu/g). Lo studio della capacità di eliminazione batterica è utile perché è uno dei tratti fenotipici più importanti per le ricerche di selezione genetica; il suo ruolo nell’epidemiologia dell’infezione è stato notevolmente ridimensionato da uno studio recente (Mitchell et al., 2015) che ha indicato in meno del 10% la percentuale di bovini infettati naturalmente che diventa high o super shedders e di questi il 95% verrebbe eliminato o morirebbe nell’arco di 12 mesi dopo l’identificazione.
La trasmissione avviene principalmente per via oro-fecale. Il colostro rimane una fonte d’infezione non trascurabile anche se si pensa che la presenza di micobatteri possa essere imputabile soprattutto ad una contaminazione fecale (McAloon et al., 2016) dal momento che è stata dimostrata una correlazione positiva tra scarsa igiene della mammella e positività del latte a MAP (Beaver et al., 2017). L’igiene del parto svolge quindi un ruolo imprescindibile e rappresenta sicuramente il punto cruciale di tutti i programmi di controllo. Il contributo dell’infezione in utero alla trasmissione verticale di MAP potrebbe essere ridotto: la maggior parte degli studi di campo sono contraddittori non potendo dimostrare con certezza che l’infezione dipenda più da una contaminazione post-natale che intrauterina. Molto interessante è la possibilità di trasmissione tra vitelli dimostrata da uno studio canadese (Corbett et al., 2017). Le normali pratiche di controllo delle enteriti neonatali (soprattutto il ricovero in box individuali) sono generalmente sufficienti per minimizzare il rischio di trasmissione di MAP. Le raccomandazioni del D. Lgs. n. 126/2011, che impone un contatto diretto tattile fino ai due mesi e il ricovero in box collettivi dopo i 2 mesi, rappresentano un fattore di rischio importante di cui tenere conto nella stesura di un eventuale piano di controllo sanitario.
Per concludere, le nostre conoscenze riguardo la paratubercolosi si sono sensibilmente ampliate negli ultimi anni anche se rimane una malattia piuttosto complessa e a tratti misteriosa. Si sono scoperte novità interessanti quali la maggiore ereditabilità dei tratti fenotipici di resistenza all’infezione e la possibilità di trasmissione tra vitelli. L’efficienza di diffusione del MAP è stata ridimensionata e questo dovrebbe essere un elemento motivante ad intraprendere dei programmi di controllo.
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